ANTOS
VINCENZO
SCHILIRÒ
profilo
Dante Alighieri
Milano 1931
Al carissimo ANSELMO DI BELLA
legato allo
Schilirò
da spirituale fraternità.
VINCENZO SCHILIRÒ accoglierà certamente questo volumetto di
Antos sulla sua attività letteraria con tranquillo compiacimento,
poiché vi troverà un giudizio che è dato con serena obiettività,
con intelligenza ed amore.
Egli ha studiato, lavorato, prodotto, pubblicato senza cercare
rumori intorno a sé, senza pretese di nome e di fama; pago soltanto
dell'intima soddisfazione che gli è venuta dai libri e dallo studio,
del suo amore per l'arte, del conforto e del riposo che il suo
pensiero ha trovato comunicandosi e partecipandosi agli altri, ai
giovani specialmente.
Se oggi Vincenzo Schilirò sente che è tirato quasi a forza
fuori del silenzio in cui volontariamente è stato solito chiudersi,
deve compiacersi, non fosse altro per questo, perché il solo fine
che all'arte sua ha assegnato, di giovamento morale e intellettuale,
è stato raggiunto: le sue opere, le sue pubblicazioni sono già
penetrate nel pubblico, il suo pensiero è posto a confronto col
pensiero degli altri, la sua arte ha preso il suo posto nel dominio
dell'arte.
Di altro genere è il nostro compiacimento, nostro, cioè degli
amici di Vincenzo Schilirò, in particolare di quelli che gli siamo
compagni della giovinezza fino ad oggi, e lo abbiamo visto
primeggiare nella scuola e poi in ogni attività pubblica sia sociale
sia culturale, lo conosciamo nel suo animo, nel suo pensiero, nelle
sue aspirazioni, nei travagli anche del suo spirito, e sappiamo
quello che egli potrebbe scrivere e non scrive, quello che egli ha
scritto e non pubblica, quello che sta preparando e che supererà dal
lato artistico quello che ha già pubblicato.
Il nostro compiacimento è orgoglio di patria. La nostra patria
che nei tempi passati fu madre di eletti ingegni, di grandi pensatori
e geniali scrittori, oggi può ritornare superba di questo suo
figlio, e deve sperare che da questo suo figlio riceverà nuovamente
gran nome. Poiché Vincenzo Schilirò, se la malferma salute non lo
abbandona del tutto, è capace di raggiungere altre vette, di porsi,
quando vincerà la sua ritrosia e finirà e pubblicherà i lavori ai
quali si è accinto, fra i maggiori pensatori e prosatori dell'età
nostra.
All'amico comune Antos, che per l'affinità spirituale che fra
noi passa ha voluto dedicarmi questo suo studio, sono debitore di
gratitudine, non solo per questo suo pensiero gentile a mio riguardo,
ma anche e principalmente perché ha compiuto Egli un dovere nostro,
perché si è occupato di una nostra gloria, ha svegliato una nostra
ambizione.
Tutti della mia terra gli dobbiamo essere grati. Egli non
ostante le sofferenze del suo fisico e il lavoro del suo nobile
ministero, ha trovato il tempo di leggere e meditare le opere di
Vincenzo Schilirò, e ne ha riassunto il pensiero e l'arte con una
sobrietà e una chiarezza ammirevoli.
Nel suo lavoro Antos è stato guidato dalla sua passione per
gli studi letterari, ma certo pure dal suo affetto per l'amico
Vincenzo Schilirò, primo e caro amico fin dagli anni giovanili;
guidato dal desiderio che la grandezza e la genialità dell'amico sia
resa più pubblica, sia nota anche a quelli che si ostinano a
sconoscerla.
Cosicché il suo studio i critico animato da questa passione e
da questo affetto è riuscito un pregevole lavoro letterario, e
l'autore vi rivela una profonda conoscenza dei problemi estetici
trattati dallo Schilirò, gusto artistico e sicura padronanza della
lingua.
Un altro solitario che lenisce le sue sofferenze fisiche coi
libri e con lo studio.
Anselmo Di bella
Milano, 15 maggio 1931
PROEMIO
La gran penuria di scrittori, che la letteratura soffre tra il
nostro clero, par si voglia compensare in questa figura di pensatore
e d'artista, la quale s'eleva ben alta all'ammirazione di tutti.
Vincenzo Schilirò è ormai conosciutissimo e stimato da non pochi
tra i migliori rappresentanti della letteratura italiana: e, come
maestro, ha intorno a sé un buon numero di discepoli che gli fanno
onore.
La Grande Enciclopedia Popolare Sonzogno, a pag. 323 del
volume XVIII, in succinto ne traccia così la biografia: “Critico,
cultore di estetica e poeta italiano, n. a Bronte nel 1883. Ha
insegnato per qualche decennio nel liceo del Real Collegio Capizzi di
Bronte. Fra le molte sue pubblicazioni vanno segnalate: La
credenza carducciana; Il romanticismo e gli “amici pedanti”;
I motivi estetici dell'arte d'annunziana; Appunti di
estetica; ecc. Recenti e lodati lavori di poesia sono il poemetto
drammatico Santo Francesco e il racconto lirico Il
seminatore che non miete”.
Eppure è caso curioso, specie oggi che facilmente chi sa
rabberciar qualche novella è messo in mostra, e si parla di tutto,
anche delle cose più insignificanti è nonostante i periodici che
all'occasione si sono occupati di qualche suo lavoro, non siamo stati
avari di lodi e di compiacimento, i suoi libri tuttavia non godono
quella notorietà che per il loro valore meriterebbero. Gli è che lo
Schilirò è esempio non troppo comune nella repubblica letteraria è
non ha mai sentito il bisogno di trovare l'editore reclamista che sa
lanciare il libro a decine di migliaia di copie.
Carattere fiero, che non conosce anticamere, scrive per sé, per
un bisogno infrenabile del suo spirito, e pubblica, in pochi
esemplari, per gli amici. Per i lettori anonimi e sconosciuti mostra
un'assoluta indifferenza. Ha amato, per altro, lavorare in mezzo ai
suoi alunni e per essi ha curato un vasto repertorio drammatico.
Anche quando tien fisso lo sguardo all'arte, ha per fine
l'insegnamento, e, se questo è raggiunto, è pago.
Ma è giusto che le sue opere siano così diffuse come egli è
conosciuto, perché da tale diffusione molti trarrebbero profitto. Ed
io, che passai accanto a lui i migliori anni della gioventù studiosa
e ansiosa verso miraggi che sono oggi, in parte, realtà, e poi
finora sono stato più o meno vicino e quindi partecipe delle sue
ansie, del suo lavoro e delle sue gioie interiori, ho voluto
assumermi il compito di farlo conoscere a chi non lo conosce ancora
e, s'è possibile, farlo conoscere meglio a chi lo conosce appena o
male. Forse, è vero, non ci riuscirò: ma sarà molto per me se
arriverò almeno a far sorgere il desiderio di prendere e leggere i
libri dello Schilirò.
ATTIVITÀ GIOVANILE
Vedremo, in seguito, nelle pagine dello Schilirò uno spirito
molto combattivo, ma di quella combattività che tanto più è
temibile quanto più è calma: e lo vedremo fin dal suo primo
manifestarsi al pubblico. Questo subito apparire meraviglierà. Ma
non farà nessun'impressione a chi lo ha visto o anche assistito nei
primi anni della sua giovinezza e poi nel periodo turbolento della
politica che corse dal 1907 al 1914.
Egli, affascinato dal movimento democristiano che, in aperta
antitesi alle concezioni liberale e socialista, mirava a sollevare le
classi meno abbienti, iniziò la sua attività con opere di evidente
pubblico vantaggio.
Fin dal 1907, oltre a lavorare nell'oratorio giovanile e
nell'annesso teatrino, mise su, insieme ad altri amici, lo
Stabilimento Tipografico Sociale, con lo scopo d'agevolare la
propaganda democristiana: costituì la Cassa Agraria, il più
importante istituto di credito della città, che diresse per molti
anni ed arricchì di uffici e stabile proprio: portò il suo
contributo all'organizzazione degli agricoltori ed al circolo
giovanile di cultura: e fece sorgere il primo periodico che vedesse
la luce in Bronte, Il Propagandista, mirante a risvegliare la
coscienza del popolo dinanzi alla grave questione sociale.
Sennonché nel settembre del 1907 Pio X, condannando il
modernismo, ordinava tutte quelle misure di precauzione e di
vigilanza che, applicate con eccesso di zelo, degenerarono in
parecchi inconvenienti. Fu a causa di questi che lo Schilirò,
sospettato di modernismo, limitò la sua attività pubblica e fece
cessare le pubblicazioni al Propagandista, al quale dopo una
pausa fece succedere, con fisionomia di periodico
politico-ammistrativo locale, il quindicinale Domani! che
visse battagliero fino alla nostra entrata nella guerra mondiale.
Abbiamo fatto questi accenni, che potrebbero sembrare di scarsa
importanza, tanto più che riguardano un periodo addirittura
tramontato, perché contribuiscono a rivelare l'uomo e il formarsi
dello scrittore. Il Domani! infatti in mano dello Schilirò fu
un'arma temibile nella lotta a viso aperto: e, indipendentemente dai
risultati pratici che ottenne nel campo politico e amministrativo
della provincia, esso a tanta distanza di tempo ci è tuttora caro, e
noi lo conserviamo gelosamente, perché fu anche la nostra piccola
palestra artistica. E l'amiamo soprattutto per quest'ultimo motivo.
In tanto infuriar di partiti e di passioni, quegli che proprio non
si scompose affatto fu lo Schilirò, il quale seppe star a capo del
movimento non solo con chiarezza di principii e fermezza di
propositi, ma con quella amabile serenità che è propria di chi sa
fare il suo dovere e sa aspettarsi le amare delusioni.
Quest'atteggiamento lo fece scrittore simpatico, amabile poi in mezzo
alla brigata degli amici che lo circondava: una di quelle brigate che
si formano assai naturalmente tra i giovani sinceri e intelligenti e
rappresentano, negli anni maturi, uno dei migliori ricordi.
Egli così, quasi senz'avvedersene, mentre gli avversari
fremevano, si trovò in quelle competizioni politiche come uno non
avesse altro scopo che divertirsi, facendo, senza passione,
esercitazioni d'arte.
Chi conserva la collezione del periodico può facilmente vedere
questo, attraverso gli articoli lindi e semplici, dove le notizie
politiche s'intessono alle idee sociali con un sobrietà rarissima e
un lepòre che, alle volte, raggiunge il tono del più fine humour.
Lo stesso si può rilevare dal giornale umoristico U Trabanti,
uscito fino al quarto numero nel periodo che più infuriava la lotta
politica del '13, e redatto in un miscuglio di dialetti della
provincia, non escluso il latino maccheronico. In esso l'amara ironia
del popolo brontese, che spesso è beffa, e la contesa di parte si
vestono, per opera dello Schilirò che scrive o dirige, d'una forma
originale e artistica che rende piacevole la letteratura del foglio
anche a chi non è interessato alla lotta. La qual cosa dà a vedere
le doti e le attitudini dello Schilirò come scrittore e come uomo
d'azione.
S'ebbe poi subito a rimpiangere la fine del giornaletto, che
moltissimo fece divertire: ma bisogna riconoscere ch'esso non aveva
più ragione di vivere. Così pure, alla vigilia della nostra guerra,
cessò le sue pubblicazioni il Domani!, dopo aver combattuto
una nobile battaglia a favore dell'indipendenza e dell'integrità
amministrativa del R. Collegio Capizzi.
Possiamo dire che con la cessazione di quei periodici lo Schilirò
s'allontana definitivamente dalle competizioni politiche e
dall'attività sociale, per darsi tutto allo studio, alla scuola e
all'arte.
LE PRIME OPERE
Lo Schilirò fece conoscere la sua preparazione letteraria agli
esami di laurea, nel giugno del 1912, quando, senza aver chiesto
suggerimenti e giudizi a nessun professore dell'Ateneo di Catania,
presentò come tesi La credenza carducciana, che fu una
rivelazione e uno stupore.
Il prof. Paolo Savj-Lopez, relatore di essa e critico
incontentabile, dichiarò che mai da un esordiente aveva visto
presentare una tesi così perfetta nella forma e nella sostanza. Ma
siccome lo Schilirò, che non aveva frequentato i corsi della
facoltà, era poco o nulla conosciuto dai professori dell'Ateneo e
qualcuno di costoro, mosso dal settarismo allora di moda, avanzò il
sospetto che il lavoro, nonché farina del candidato, fosse una
manovra del clericalismo invadente che mirava a rivendicare la
credenza del Carducci ateo, la Commissione richiese dallo
Schilirò un nuovo saggio scritto. Fu così che egli nell'ottobre
dello stesso anno presentò stampato, oltre che La credenza
carduccianae suo valore, un secondo lavoro che completava
il primo, cioè il Romanticismo e gli “amici pedanti”, la
discussione del quale fu per lui un successo e viva soddisfazione pel
Savj-Lopez, che invitò ripetutamente lo Schilirò a prender contatto
col suo cenacolo letterario di Firenze.
Le due opere, profondamente diverse per chi le guardi con una
certa superficialità, sono intimamente connesse, di maniera che
l'una integra l'altra.
Nella Credenza carducciana l'Autore messosi con sicurezza
di vedute tra le due file opposte è di chi fa il Carducci affatto e
di chi lo fa un convertito, secondo gl'interessi dei polemisti è,
analizza chiaro e preciso le opere del Poeta e conclude che il
Carducci “quando declamò contro Cristo, fu per odio ai preti, e
quando di Cristo pensò libero e sciolto, fu sentimento intimo: che
di Cristo non ammise la divinità, ma s'inchinò al gran martire
umano: e che a Dio volle credere sempre più” (pag.126). E benché
il libro studi soltanto il lato spirituale del Poeta è e forse
a motivo di ciò è illumina anche il carattere sincero, libero e
combattivo di lui, quale si rivela nell'arte e nella vita.
E' proprio in questo che La credenza carducciana si
connette a Il Romanticismo e gli “amici pedanti”.
Lasciate le pagine fluenti della prima opera, che ci facevano
assistere allo svolgimento drammatico della vita spirituale del
Carducci, nella seconda siamo portati ad assistere a quel periodo di
formazione letteraria di lui, che corse dal '56 al '71. Ci troviamo
perciò davanti ad un'opera puramente storica. Ma lo Schilirò che,
nella Credenza ci aveva fatto vedere che fattore principale
dell'arte e dell'operosità del Carducci è l'amore libero,
battagliero e insofferente di qualsiasi giogo, qui ritorna a
mostrarcelo con lo stesso animo, nell'atto di pontificare in mezzo
agli amici e di scagliare fulmini contro i romantici. Che lieta e
promettente brigata quella dei quattro amici pedanti!. E' una
di quelle brigate che, nella vita, capitano sempre e in cui in po’
tutti ci si trova: e mi fa essa pensare a quella del Domani!
che riuniva lo Schilirò e i suoi amici nella fede e nel culto d'una
bella idea. Forse sta qui il segreto della simpatia che suscita
questa seconda opera sul Carducci.
La quale poi, più che essere una monografia che rischiara un
periodo dell'attività letteraria carducciana, è un utile contributo
allo studio sul romanticismo. Chi con esattezza l'ha mai saputo
definire? Ecco qui uno è a mio parere è il quale, valutando le idee
e le battaglie sostenute dal Carducci, riesce a mostrare che cosa sia
stato il romanticismo per costui e quale influsso su di lui e sopra i
suoi contemporanei abbia esercitato.
Per il Carducci il romanticismo fu, in sostanza, come pel Manzoni,
“un ragionevole ritorno agli esemplari indigeni, di vigoria
spontanea, ma insieme d'arte ingegnosa per l'accordo tra il classico
e il neolatino” (p.12): cosicché egli più tardi, moderando la
lotta scapigliata degli altri classicisti e guardando al romanticismo
con quel fine intuito con cui aveva guardato il Manzoni, riuscì non
meno romantico che classico, così da potere entrare nella
considerazione del Mazzini: “I veri Romantici non sono ne boreali
ne scozzesi: sono italiani, come Dante quando fondava una letteratura
a cui non mancava di romantico che il nome” (ib). Pertanto egli
cessa di odiare le lingue estere, anzi comincia ad amarne i
capolavori fino a tradurre dal Henie e a comporre una bellissima ode
a Victor Hugo: e in Rime Nuove è il libro meno stimato dai
classicisti impenitenti è impreca sì alla luna, immagine del
romanticismo sentimentale e flaccido, ma definisce per innalzarle uno
dei canti più teneri (Vendette della luna) in una forma che
non potrebbe essere più romanticamente perfetta.
Tutto questo periodo ricco di battaglia e fecondo di nobili sensi
vediamo svolgersi sotto i nostri occhi leggendo l'aureo volumetto
dello Schilirò. Il quale, se si guardi alla storia della brigata dei
pedanti, è non sembri irriverente l'accostamento è il
gemello de Le risorse di San Miniato. Il discepolo, senza
accorgersene, ha un po’ preso l'arte al Maestro e l'ha usata con
quella naturale progressiva modernità di lingua di chi ha ormai un
patrimonio letterario tutto suo e non è asservito a nessuno.
Altri ha tentato il medesimo lavoro o perché non ha conosciuto la
monografia dello Schilirò o perché ha creduto di poter fare di
meglio: ma, ch'io sappia, essa resta il lavoro più conclusivo del
battagliero periodo carducciano.
Forse potrebbe venir fuori qualche lettera ancora inedita del
Poeta o dei suoi amici per meglio corroborarne le prove: ma la storia
è li sistemata e vagliata così che la letteratura carducciana non
può più farne a meno.
E noi questi primi passi conosciamo, attraverso pagine linde,
armoniose e compatte, l'attitudine critica dello Schilirò, il quale,
se segue il metodo storico già caro al Carducci, lo vivifica d'uno
spiccato senso d'arte, di cui del resto nel 1910 aveva dato prova con
una traduzione dell'Arte poetica di Orazio e nel 1912 col
volumetto di versi Primavera triste.
TENTATIVI D'ARTE
Vorremmo dire dell'artista giovane tutto il bene che abbiamo detto
del critico giovane: ma, data la diversità dei due campi, ci tocca
far delle riserve, che si devono piuttosto al tempo immaturo in cui
lo Schilirò scrisse i primi versi.
Infatti i due saggi critici che abbiamo osservato son opera di
quel periodo decisivo in cui egli ha già trovato la sua via e la sua
forma e quindi può con precisione far vedere la competenza cui è
arrivato per precocità d'ingegno e di cultura: ma i versi si sono
andati raccogliendo, adagio adagio, negli anni precedenti, ancora
immaturi.
Nella brevissima prefazione de L'arte poetica l'autore ci
dice: “Attesi alla presente traduzione sui diciott'anni, quando
cominciai, in iscuola, a gustare L'arte poetica. Ed ora la
pubblico, non per pretensione letteraria, ma perché rileggendola m'è
sembrata attenersi scrupolosamente al testo.”
Se è in versi, bisogna attribuirlo ad un puro desiderio giovanile
di esercitazione metrica.
A dir la verità, pur trattandosi d'opera giovanile, qui ci
troviamo dinanzi a un lavoro pressoché perfetto nel suo genere:
poiché la scrupolosa fedeltà al testo è così contemperata
all'intelligenza della tesi del Poeta e alla scioltezza e purezza del
verso, che vien proprio da dubitare se si tratti d'un lavoro
originale anziché d'una traduzione.
Si leggano per esempio, i primi 14 versi che formano come il
proemio:
Se volesse un pittore a capo umano
un collo unire
equino e pinger penne
di svariato color su varie membra
da
qualunque animale raccozzate,
in modo che una donna in viso
bella
finisca in pesce sconciamente turpe,
e foste, amici, a
visitar chiamati,
vi trattereste forse da le risa?
Credetemi,
Pisoni, a tale quadro
somiglierà lo scritto, le cui strane
immagini saran rappresentate
come gli strani sogni d'un
infermo,
in modo che ne il piede ne la testa
si riferisca ad
una forma sola.
Codesto garbo e levigatezza di stile è dote naturale allo
Schilirò, cui l'abbiamo visto spiegare a dovizia nelle due critiche
carducciane, e gli è naturale anche nel verso, quantunque questo non
raggiunge ancora la forza di costruire un lavoro più esteso. Apriamo
Primavera triste e ve li troveremo dovunque.
Questo volumetto d'appena 130 pagine comprendente poesie di varia
ispirazione, anche occasionale, di quella cioè che alle volte nuoce
alla vera poesia. Ma noi giudichiamo senza preconcetti. L'Autore
nella prefazione ci dice: “Fra il rispetto, che nutro sincero e
quasi geloso per l'arte, e quella compiacenza indulgente che, nel
giudicare i lavori della giovinezza, ascolta con preferenza la voce
del cuore, ha vinto la seconda... Ma, nel dichiararmi vinto, devo pur
dire che la mia perplessità nel congedare i manoscritti alla stampa
non è stata lieve. Me lo confermano la facilità con cui, rileggendo
di quando in quando questi versi, son venuto decimandoli, e la
convinzione salda che, indugiando qualche anno ancora, li avrei
ridotto di vantaggio... Mi conforta per altro il pensare che, se il
cuore è stato indelicato verso l'arte, non ha patrocinato la causa
di sentimenti indegni”.
Confessioni preziose, queste, che ci rivelano la storia umile e,
nello stesso tempo, semplice e sincera di questi versi. C'è, è
vero, alle volte non un'ispirazione vera e propria, ma una tesi da
sostenere, come in certi canti moraleggianti, che, atteggiati a
troppo pessimismo o ad amara satira o suggeriti dalle vicende
politiche, potevano egualmente essere scritti in prosa, come è stato
osservato pel Giusti. Ma ci sono dei canti che rivelano soltanto il
mondo interiore del poeta e, quantunque questo mondo non s'esprima in
tutta la sua vitalità, pure ne mostrano la natura e ne promettono la
manifestazione compiuta. Simili canti non sono pochi; e io vorrei
riprodurli tutti se non me lo vietasse il modesto compito propostomi;
ma ne cito i titoli: Primulae, La vigilia de l'Ascensione, Poesia
e prosa, A mezzanotte, Pazza?, Drammi occulti, Sposi novelli che
emigrano, Mosche di novembre, Per sempre, Il sacrificio, Desto
compassione.
In questi canti, siano pure semplicemente abbozzati, noi troviamo
un piccolo mondo, dove le visioni del poeta sono vive e palpitanti
della stessa vita che le cose hanno nel gran mondo; e vediamo il
poeta lasciarsi da esse dominare, senza artifici o esagerazioni. Ecco
la seconda delle poesie citate, tanto per leggerne una delle più
brevi:
LA VIGILIA DE L'ASCENSIONE
E' mezzanotte. Le fiammate s'alzano,
serpeggiano
scherzose fra i tuguri
ammonticchiati ed un bagliore fumido
proiettano sui muri.
Chiassosi crocchi aggirarsi e tumultuano
attorno ai
fuochi. Sbucan da le vie
le fanciulle e, con voce incerta e
tremula,
cantan le litanie.
Ne la grave notturna quiete, tremano
quell'argentine
accalorate voci:
tremano e poi si sperdono, per l'ampia
oscurità, veloci;
e l'eco gaia, penetrante, fondesi
con altre note,
anch'esse penetranti...
Intanto verso il ciel stellato guizzano
le fiamme crepitanti.
Se non ce lo dicesse l'Autore stesso, lo vedremmo ugualmente noi
che in questi canti c'è ancora il giovane che s'inizia al gran
mistero della poesia, e vedremmo pure che vi si nota un non so qual
sentore d'imitazione; ma è anche chiaro che questo giovane ha in
petto qualche cosa che lo anima e lo fa palpitare: la poesia.
Cosicché noi usciamo dalla lettura di questo volumetto con la sicura
speranza di aprirne fra breve un altro che ci dia il poeta.
IL SAGGIO SUL D'ANNUNZIO
Da tutto quello che siam venuti osservando emerge chiaro che lo
Schilirò, scrittore, possiede fuse in perfetta armonia le due
qualità che è come egli dirà in Appunti d'Estetica è son
necessarie al vero critico d'arte: di filosofo e d'artista. E' vero
ch'egli ama, per lo più, presentarsi da critico modesto: ma, anche
quando fa delle semplici disamine letterarie, rivela in modo
manifesto il suo temperamento d'artista.
Dopo le pubblicazioni del 1912 lo vediamo raccogliersi e dar poi
alle stampe nel '18, I motivi estetici dell'arte d'annunziana:
un bel volume di 268 pagine, edito dal cav. N. Giannotta. Il libro,
malgrado l'edizione non avesse fini commerciali e non potesse quindi
avere larga diffusione, ebbe realmente le accoglienze che meritava: e
fra i tanti che lo lodarono e si felicitarono con l'autore ricordiamo
Benedetto Croce, al quale parvero molto esatti i giudizi che
lo Schilirò dà sul D'Annunzio e su ciò che la sua arte realizza.
Il nuovo lavoro veniva a compier bene le promesse lusinghiere dei
due saggi carducciani. Poiché qui il critico si presenta non solo a
giudicar la vasta operosità d'uno dei nostri poeti più fecondi, ma
anche a ricercare e vagliare in forma artistica i motivi ideali che
guidano le opere del poeta medesimo. Egli è ormai sicuro padrone di
sé stesso: ha un patrimonio estetico tutto suo: ha una conoscenza
vastissima nel campo della letteratura; e gli è tanto familiare la
vasta opera d'annunziana che riesce a guardarla nel suo complesso, e
sa seguirne le fasi, i criteri e le preziosità dell'elaborazione
estetica. Si sente subito lo scrittore della Credenza carducciana
e del Romanticismo; ma come più ricco d'esperienze, di modi e
di suoni! Qualunque pagina apriamo, troviamo cose dette come non
spesso ci occorre sentirle dire. Si pigli per esempio il Cap.XIII, La
musicalità dell'arte e si vedrà la maestria dell'Autore nella
trattazione del soggetto e nel modo con cui ne parla.
Ma, idealmente, il libro unito e compatto non è. Una parte, la
prima tratta i più fondamentali problemi estetici, a cui dà una
soluzione rispondente alle vedute dell'autore: l'altra vorrebbe
essere l'esposizione delle teoriche d'annunziane (in verità al
D'Annunzio, temperamento antifilosofo per eccellenza, come lo stesso
Schilirò avverte, manca un vero sistema estetico) e la critica di
tali teoriche, alla stregua dei principi discussi all'inizio. L'una e
l'altra parte cercano di fondersi in un tutto organico, ma non è
così che non si possano facilmente separare. Tanto è vero che la
prima parte è stata dall'autore nuovamente elaborata e presentata
sotto il titolo Appunti d'Estetica; e la seconda, come critica
delle varie produzioni d'annunziane, starebbe meglio a parte: lavoro
che lo Schilirò non è forse alieno del farne, non foss'altro per
aggiornare lo studio delle opere del poeta.
Comunque, è interessante qui rilevare quale sia l'arte del
D'Annunzio secondo il concetto dello Schilirò, che, a mio parere,
seppe guardare a tutta la critica d'annunziana di più d'un ventennio
e, guidato ormai dalle lunghe esperienze del suo gusto finissimo,
superarla.
Il D'Annunzio, come abbiamo accennato, una teorica sua dell'arte
non l'ha, ma subisce molte influenze esterne. Nelle liriche
giovanile, nelle novelle e nel romanzo “ingenuo” Il Piacere
“attraverso le reminiscenze letterarie si rivelano con sincerità
profonda la genialità pittorica e la sensualità violenta del
Poeta”. Dopo “cominciamo a notare le prime preoccupazioni
teoriche. Pel D'Annunzio l'arte comincia ad essere un'esercitazione
formale, un gioco da dilettante... Spirito essenzialmente
formale, più che il pensiero ama l'espressione”. Il che “non è
della parola come espressione viva: è la divinizzazione del suono
squisitamente ricercato. Lo confesserà più tardi, condannando
questo malsano artificio de' suoni”. (Cap. XI, pp.95-7).
Dal dilettantismo formale passa al psichico. “Il
D'Annunzio, stanco del malsano artificio de' suoni, vorrebbe volgersi
alla vita e alla realtà, cercare un contenuto, animare d'un
afflato vitale le sue opere artistiche... Pensa che bisogna studiare
gli uomini e le cose direttamente, senza trasposizione alcuna.
Ma è evidente che un tal metodo rimane pura velleità
obbiettivistica. L'assenza, nel Poeta, d'un profondo pensiero etico
s'oppone all'organica e vitale animazione degli ambienti studiati,
per dar luogo al dilettantismo psichico. E, per la ragione che
un'opera d'arte non può sorgere sopra un piano ragionato, il
D'annunzio, giovandosi di dati estranei alla sua vita fantastica, non
fa che costruire. Dipende da ciò la frammentarietà artistica
che caratterizza le opere d'annunziane... La creazione della favola
bella, sognata nel Fuoco, è ancora un sogno” (98-9).
Ma il poeta fa un passo avanti, perché incomincia a sentire che
la suprema bellezza artistica risiede nell'espressione, e si sforza
di trovare quell'espressione che “sembrasse non imitare ma
continuare la Natura”. Quest'espressione ideale dovrebbe
essere il Trionfo della Morte. “Praticamente però il
D'Annunzio non ha dato, col Trionfo della Morte, l'ideale
opera artistica per eccellenza...Egli è riuscito, come sempre e
forse meno che altrove, l'artefice inimitabile di staccati quadri
plastici e sinfonici”. Solo “quando il Poeta ha dinanzi agli
occhi dello spirito una visione degna di serio esercizio artistico,
dimentica il ben definito preconcetto e cessano la
ricercatezza, la leziosagine, la prolissità analitica e le smorfie
filosofiche. Il pellegrinaggio di Casalbordino e la scena del
fanciullo annegato, che bisogna contare fra le migliori pagine del
libro, sono la più bella e la più categorica affermazione del
temperamento estetico d'annunziano. Eppure non devono nulla alla
preannunziata tecnica! (pp.101-2)”.
Il D'Annunzio sente, finalmente, il bisogno di riposare in una
definitiva concezione della vita, che sia fonte di sincerità
artistica. Ma anche ora non fa che ricorrere all'aiuto altrui: alla
dottrina nietzschiana. Ed è utile dire che neppure nella concezione
del Superuomo può trovare sincerità artistica, perché la filosofia
nietzschiana ne isterilisce la fonte col violentare i sentimenti
umani e capovolgere i valori della vita. Se ne avvide quando di
fronte all'eccidio europeo denunziò ogni teoria che sapesse di
tedesco e cercò di mettere la sua arte a servizio dei massimi valori
umani. Ma purtroppo il Poeta, nonostante la buona volontà d'essere
sinceramente italiano in mezzo agli italiani, e malgrado il
cataclisma europeo l'abbia scosso così da convertirlo alle “semplici
antiche ideologie” e farlo vibrare di poesia nazionale, conserva
ancora “quella preziosità aristocratica che è ormai sua natura e
lo tiene lontano dalla maggioranza del popolo”.
Ho voluto riassumere in breve la trama del lavoro dello Schilirò
per far vedere quali siano gl'indirizzi è o principi estetici, come
altri li chiama è del D'Annunzio, indirizzi non sistemati
razionalmente, e come lo Schilirò sia riuscito a vagliare,
attraverso un sistema organico e consacrato, i motivi ispiratori
dell'arte d'annunziana.
Non mi dissimulo che il maggior valore del libro sta proprio in
quest'ultimo punto. Lo Schilirò, pur di fronte a due oggetti quasi
inconciliabili, passa dall'uno all'altro con snellenza e
disinvoltura, come se si trattasse d'un oggetto solo: anzi la
padronanza che mostra nel ricordare l'opera d'annunziana fa sì che
si colori meglio la parte teoretica. Di questa, che più tardi, con
nostra sorpresa, egli rifonderà in Appunti d'Estetica,
arricchendola di nuovi pregi, ci occuperemo appresso.
INTERMEZZO
Qui una stasi. Apparente però: perché lo Schilirò, il quale par
che non possa lavorare a un opera puramente dottrinale se non
intramezzandola con una di fantasia o che abbia un po’ dell'una e
dell'altra, non sta mai inerte.
Accettato, per amore di campanile, l'insegnamento nel R. Collegio
Capizzi, non limitò la sua attività alle sole lezioni scolastiche,
ma curò delle pubblicazioni modeste sì ma grandemente utili agli
alunni, delle quali faremo presto cenno, e mise su un'affiatata
filodrammatica, che per diversi anni regalò agli alunni
dell'Istituto e alla cittadinanza molte serate divertenti.
Per essa lo Schilirò compose o cavò da romanzi o ridusse delle
opportune composizioni drammatiche, tra cui ricordo: Quo Vadis?
Andrea Cornelis, Il Maestro, Sperduti, Il colpevole, I tre gobbi, I
promessi sposi, Il matto burlone. Di questi lavori non ha dato
alle stampe che il Colpevole e Il matto burlone,
scherzo comico in un atto, musicato dal M. C. Sangiorgio.
Il Colpevole, in tre atti, rimonta al '19. Non è un dramma
originale, perché, come l'autore avverte, esso venne ricavato dal
romanzo Le coupable di Francesco Coppèe: ma ricavato con
molta libertà: onde il lavoro ha uno spiccato sapore d'originalità,
anche perché la tesi del romanzo, cioè il problema della ricerca
della paternità, è stata una tesi cara allo Schilirò.
L'opera, sebbene esigua, mostra l'autore padrone non solo della
tecnica del dramma, ma anche dello sviluppo spirituale di esso, cui,
senza tale padronanza, nuocerebbe non poco l'importazione a tesi.
Il dramma piacque molto, e in Bronte è stato più volte
rappresentato con successo. Forse a ciò contribuisce il fatto che
taluni provvedimenti legislativi rispondono a un bisogno vero
dell'umana coscienza, e ben s'apponeva lo Schilirò scorgendo nella
tesi del lavoro “la più bella lancia spezzata a favore d'una legge
che tutti gli onesti invocano: la ricerca della paternità”.
Altra fatica compiuta per gli alunni del liceo Capizzi fu la
compilazione delle Note dantesche, che riescono di molto
profitto agli studenti nella loro preparazione alla licenza liceale.
L'opuscolo è del '20. L'ordine, la chiarezza e la semplicità vi
sono così grandi che s'è sentito il bisogno di farne una seconda
edizione coi tipi di Crescenzio Galàtola: anzi, quello che più
sorprende a questo riguardo è il fatto che molti studenti, in mezzo
a tanti studi e quadri sinottici della Divina Commedia, scelgono
questo dello Schilirò e, quando per economia non lo comprano, hanno
la pazienza di copiarselo. Questa preferenza indica chiaramente la
bontà del lavoro.
Si deve anche allo Schilirò l'origine di Nova Juventus,
bollettino mensile del R. Collegio Capizzi, che è notiziario
dell'istituto, palestra spirituale per gli alunni e voce cara che
porta l'eco alle famiglie dei convittori. Cominciò ad essere
pubblicata nel marzo del 1920. Essa porta il nome della Squadra
Sportiva del Capizzi e dell'inno dello stesso Istituto, composto
dallo Schilirò nel suddetto anno e musicato dal M. G. Torresi.
Ne l'ora che Italia,
con stigme di guerra,
le
braccia omai libere
ai figli disserra;
ne l'ora fatidica
che
nuovi destini
risplendono ai popoli
de' regni latini,
gli sguardi s'affissano
in te, gioventù!
De l'alma tua patria,
spossata e ferita,
pe’
cuori che piangono
la quiete fuggita,
tu sola è ricordalo è
sei 'l fiore che adorna
il sangue che circola,
la speme
che torna:
e ha fede l'Italia
in te, gioventù.
E mentre che torbidi
si fan gli orizzonti,
e il
tuono già brontola
nel piano e sui monti
oscure minaccie
di
guerra civile,
tu rompi le tenebre,
o raggio gentile,
e mostri alla patria
un santo avvenir.
Su, compì il miracolo,
o nuovo germoglio
d'un
popolo libero
e gioia ed orgoglio!
In mano la fiaccola
del
giusto e del vero,
con l'abile braccio
col sano pensiero
prepara alla patria
un grande avvenir!
Senza risparmio di fatica lo Schilirò le fornì articoli per
diverse rubriche. Al nostro fine segnaliamo soltanto gli articoli
critici, che mirano a illuminare gli studenti intorno al movimento
letterario della nazione. Essi sono svariati e costituiscono poi, nel
'21, il bel volumetto intitolato Bricicche letterarie, che
chiude la prima serie dei saggi critici pubblicati dal periodico dal
marzo '20 al giugno '21.
Riprese le sue pubblicazioni, Nova Juventus continua a
recar saggi dello Schilirò, che, al solito, non legati da nessun
rapporto, rivelano l'instancabile attività di uno che segue il
movimento letterario giorno per giorno. A questo modo avremo un
giorno, in più raccolte, una specie di galleria, dove si potranno
ammirare e gustare tante cose: una miscellanea insomma, a cui ognuno
ricorrerà con piacere per trovarvi l'esposizione geniale d'un
giudizio sempre ben preparato, il giudizio di chi ha tutta la
coscienza del suo ufficio di critico, l'articolo infine quale intende
l'Autore, che non commenta o fa postille per ostentazione, ma per
istruire i giovani che tanto ama e pei quali, malgrado la salute
cagionevole, continua a lavorare. Per questo abbiamo pagine
scintillanti di brio, di grazia e di purezza di favella pur nella
loro succinta semplicità: pagine che fanno presentire lo scrittore
di Appunti d'Estetica.
IL PENSATORE
Lo Schilirò volle dare il modesto titolo di Appunti al suo
trattato di estetica forse perché dinanzi ad altri, i quali non
finiscono mai di parlare del problema, egli ne ha parlato in un
volume di appena 220 pagine: ma, di fatto, ha addensato più idee che
gli altri, e la sua opera è completa. Essa, come abbiamo visto,
aveva fatto una prima apparizione ne I motivi di estetica
dell'arte d'annunziana, dove però stava un po’ a disagio,
perché aveva l'ufficio di chiarire o criticare l'estetica
d'annunziana è estetica che teoricamente non esisteva ne poteva
esistere è e di valutare l'arte del D'Annunzio. In verità essa
richiedeva una trattazione a parte: e lo Schilirò, che vi aveva
dedicato tutte le forze della sua mente sottile e logica e non vi
aveva risparmiato lavoro e veglie amorose, colse l'occasione del
fatto che il Governo, nella riforma scolastica, imponeva nei licei lo
studio dell'estetica e pubblicò a principio del 1924 il nuovo libro.
Intese con ciò ovviare a un bisogno urgentissimo degli alunni e
anche dei professori, che, in una materia così delicata, dovevano
seguire un manuale. E questo, allora, fu il primo, avidamente
cercato, finché altri più succinti e poi l'abolizione
dell'insegnamento della teorica nei licei non lo posero fra i libri
che interessano soltanto le persone colte.
Al suo apparire l'opera sembrò, anche all'autore, buttata giù
sulla carta quasi all'improvviso: ma se si pensi che già preesisteva
nel saggio d'annunziano e v'erano passati su altri sei anni di vita e
di riflessione, si converrà che appunto per questo essa è così
completa e d'un armonia dialettica che rapisce. Tutto ormai è maturo
in questo scrittore, il quale senza accorgersi fa dire di sé quello
ch'egli scrive del vero critico d'arte: “Un profano potrebbe
supporre che in tema d'arte il vero competente sia l'artista. Noi
diciamo: sì, ma a patto che l'artista sia anche filosofo (p.16)”.
In lui abbiamo l'artista e il filosofo: il filosofo che ha rifatto
per conto suo uno dei sistemi più discussi, più complessi, più
attuali; l'artista che ci presenta tutta la visione del suo mondo
ideale in modo così vivo e limpido che “nonostante è come
altrove, recensendo, ebbi a dire è le difficoltà naturali al
problema, questo si delinea netto e chiaro nella mente, conquisa già
dalla dialettica che si nasconde sotto le pagine limpide d'uno
scrittore cui non manca mai la precisione del quadro, dei colori e
del pennello. Ci sono infatti pagine, di quelle che sempre si
desiderano e non sempre si scrivono”.
Il trattato risulta di due parti, di cui la prima comprende alcuni
cenni storici sul pensiero estetico: cenni necessari a conoscersi dai
giovani, cui il libro è consacrato, per poter rispondere alle
esigenze della scuola, e necessari anche per rimuovere una
pregiudiziale. “Acciocché è dice l'autore è gli alunni
comprendano le fallacie dell'antico e superato pensiero estetico, non
devono cominciare col conoscere e far propria la concezione moderna
dell'arte? D'altro canto...potrebbero essi formarsi un pensiero
estetico definitivo senza conoscere il pensiero degli altri, lungo i
secoli?” (p.13-14).
Questo secondo punto di vista avrebbe dovuto convincere, come ha
convinto lo Schilirò, anche quelli che han fatto seguire la storia
del pensiero estetico all'esposizione della teorica propria.
Negli Appunti d'Estetica la trattazione personale dei vari
problemi segue logicamente alla parte storica.
Questa genesi logica mi fa oggi guardar meglio, che non facessi
nella citata recensione, alla posizione dello Schilirò dinanzi agli
altri pensatori. E non fui io solo a individuare la derivazione della
sua opera da altri sistemi. Ci fu chi disse ch'egli è un crociano, e
tra costoro fui io; chi disse che non è crociano per nulla; chi,
infine, vide in lui un ammiratore del Croce e, come io stesso allora
ammettevo, un rifacitore per conto suo dell'estetica crociana. Oggi
mi pare che la vera posizione dello Schilirò l'abbia intravista il
Mansion,
il quale scrisse: “Ses vues personelles trahissent une influence
évidente de l'ésthétique de B. Croce: mais, en meme temps, il
rejètte de la facon la plus décidèe la philosophie idéaliste à
laquelle Croce a rattaché ses vues sur l'art. Dès lors, la
conception ésthétique de M. S. quand bien meme elle parait se
rapprocher très fort de celle de Croce par certains cotès, prend
une signifiation totalement différente.”
Infatti l'Autore afferma fin da principio che l'estetica, pur
essendo strettamente legata alla parte centrale della filosofia dello
spirito, che scioglie in diversi modi il problema dell'anima,
consente tanto ai seguaci della dottrina scolastica che a quelli
della filosofia idealista di percorrere insieme un buon tratto di
via. Se pensatori discordi si trovano in pratica d'accordo nel
giudicare artistiche determinate opere d'arte, ciò indica che nel
campo della conoscenza c'è un minimo di verità o terreno
comune. Quale? Questo: che, accettato il principio (non dal solo
Berkeley formulato), che nessuna realtà può essere oggetto di
conoscenza se non in relazione con l'attività conoscitrice, il fatto
artistico deve essere studiato come fenomeno interiore della singola
attività spirituale.
Stabilito questo punto di partenza, in cui dovrebbero convenire
sia i cultori della scolastica che i seguaci del nuovo idealismo, lo
Schilirò si domanda: che cosa è l'arte?
Egli, che ammette il dualismo tradizionale (soggetto e oggetto,
spirito e materia, ente cosciente di realtà esterna), parlando
di arte distingue nettamente il fenomeno estetico (atto
creativo, spirituale e soggettivo) dal segno pratico e sensibile
(marmo, libro di versi, affresco, serie di note musicali,
ecc..) in cui il fatto spirituale si oggettiva all'esterno. Ciò
posto, egli attribuisce l'importanza del fenomeno estetico all'atto
interno, mentre considera il segno pratico e sensibile come indice,
suggeritore e risvegliatore di nuovi atti interni, e quindi alla pari
della natura circostante e di qualunque realtà fisica.
In tal modo, l'opera d'arte, intesa come oggetto sensibile, agisce
sull'ammiratore e sveglia in lui nuovi atti spirituali e sempre nuovi
godimenti estetici, allo stesso modo, per esempio, che bel panorama o
una scena della vita suggerisce all'artista la creazione d'un
capolavoro.
L'essenza pertanto del fenomeno estetico s'immedesima con quella
misteriosa e complessa attività creatrice dell'anima umana, che è
personale e caratteristica in ciascun individuo, gli atti singoli del
quale sono l'uno diverso dall'altro e non si ripetono mai
nell'identica forma. Così lo Schilirò, determinata l'unità e
l'individualità di ciascun spirito, ne estende i fenomeni estetici a
tutta la serie ininterrotta di atti coscienti che formano “il
costante divenire o evolversi o vivere di esso”: serie che “parte
dalle umili esperienze dell'io empirico, per pochi controverso, ed
esprime non più che l'ansia di questo io verso una trascendenza e
un'assolutezza che è il travaglio dei più.”
Onde, in sostanza, l'arte si rivela creazione, stima divino,
perché dal misterioso dinamismo spirituale è “piccola e grande
immagine del Primo Principio” è vien fuori incessantemente e con
reale originalità quella inesauribile catena di atti interni che si
chiama vita. Intesa in questa maniera “l'arte non può esser
contenuta né da generi o classi, né da cataloghi, ma segue l'ansito
misterioso e le vicende molteplici della vita. Così essa diviene
l'espressione perenne, a ogni attimo nuova, di tutti gli spiriti, per
tutte le forme, per tutti i bisogni. Diventa cioè il linguaggio
cosciente di ciascun'anima, la quale ha un modo tutto suo
d'esprimersi, ed esprime visioni sempre nuove, non duplicate mai.
Essa, infatti, non è privilegio di poche anime, di quelle soltanto
che eccellono per potenza e luminosità espressiva: ma crisma d'ogni
essere umano. Sol perché uomo è bisognoso cioè di vivere e di
divenire è l'individuo è, tendenzialmente artista, come la
vecchietta che inventa storielle immaginose di fate, come il
contadino che para il linguaggio vivido e incisivo, come l'uomo
d'affari che lusinga ed abbacina il prossimo, come il solitario che
vive di sogno. Tutti, quantitativamente, più o meno artisti”
(p.124)
Da ciò che abbiamo visto, risulta chiaro che l'estetica dello
Schilirò si differenzia nettamente da quella del Croce nel precisare
l'elemento costitutivo dell'arte. Mentre per il filosofo idealista e
per quanti, sotto la preoccupazione intellettualistica, scorgono nel
momento creativo artistico la fase più modesta e ingenua della
conoscenza, l'arte è visione o intuizione, un fatto
cioè di natura soltanto fantastica, medio tra i fenomeni sensuali e
quelli intellettivi, per lo Schilirò, che si basa sull'unità
inscindibile dello spirito, gli elementi costitutivi del fenomeno
estetico cominciano dalla sensazione cosciente e comprendono le
intuizioni e tutte le forme della conoscenza superiore: perché, se è
vero che l'arte, creazione espressiva e rappresentazione, rifugge dal
travaglio speculativo e vive della sua tendenza intuitiva, non
è meno vero che la medesima tendenza a vedere è l'ansia
perenne dello spirito inteso come intelligenza; e le stesse
speculazioni intelletive altro non sono che una serie di gradini che
menano alla visione. Cosicché l'intuizione, che per l'idealista è
forma bassa di conoscenza (e l'arte conseguentemente un'attività
modesta dello spirito), per l'Autore è uno stimma e connotato
divino: giacché Iddio vede senza bisogno di discorrere. E l'arte,
rifuggendo dal faticoso argomentare, ci apparisce come la più bella
tendenza umana a elevarsi verso il Creatore.
Da questo concetto fondamentale è che fa coincidere le forme
individue dell'attività estetica con la teoria indefinita di atti,
sempre nuovi e fra sé distinti, onde risulta il dinamismo dello
Spirito è lo Schilirò fa derivare l'indipendenza esistenziale
dell'arte del suo contenuto, sia logico che morale. La quale
illazione, dimostrata giusta dal fatto che non tutti gli atti interni
si sommettono alle esigenze della verità e dell'etica, è confermata
dall'esperienza quotidiana che non tutte le opere d'arte sono esempio
di castigatezza e di coerenza logica.
Ma, come ho notato, si tratta d'indipendenza esistenziale o
possibilità di verificarsi (analoga al libero arbitrio), non
d'indipendenza assoluta: giacché il fenomeno estetico,
considerato “come valore umano da estrinsecare e coordinare insieme
ad altri valori pratici, deve sommettere la sua indipendenza
all'economia delle maggiori finalità umane. Infatti, dal punto di
vista utilitario, l'estrinsecazione dell'arte non può culminare in
un'attività affatto indipendente dalle altre forme di attività
spirituale. Se l'esprimere con segni esterni è forma di attività
utilitaria (piacere e dolore, utile e nocivo), e se l'unità pratica
dello spirito impone che ogni espressione si coordini a un'economia
superiore, come è quella etica e razionale, si deduce che la libertà
artistica incontra un limite logico nelle altre forme di attività.
Onde l'indipendenza o liricità estetica deve talora rassegnarsi a
quella mortificazione cui l'uomo filosofo o moralista crede di
doverla assoggettare a tutela degli altri valori umani” (165).
Un altro lato originale dell'estetica dello Schilirò è la
posizione netta e conseguente da lui presa dinanzi alla critica.
Stabilito che il fenomeno estetico, in chi s'appressa ad un'opera
d'arte, consiste nel ricredere nel proprio spirito la visione
artistica dell'autore, appare logico che, a seconda la capacità o le
attitudini dell'osservatore o goditore dell'opera, la nuova
riproduzione spirituale possa riuscire migliore o inferiore
all'originale. Ma ciò non ha niente da vedere con giudizio, sempre
relativo, che si può dare d'un lavoro e che si riduce in ogni caso
alla semplice o gratutita asserzione: questa è opera d'arte,
quest'altra no. Anzi, secondo lo Schilirò, il giudizio, che
critica o analizza un fatto spirituale già verificatosi, è un nuovo
atto spirituale che soppianta il primo, ed è quindi la negazione di
esso. Chi giudica pertanto d'un lavoro con intendimenti pratici,
scientifici o morali, può compiere una nobilissima fatica, ma non
perciò avrà fatto critica estetica: perché critica
ed estetica sono termini antitetici. Così, per esempio, il
lettore dell'Orlando furioso, rifacendo con Astolfo il viaggio
alla luna, ricrea in sé un fenomeno estetico: mentre, esaminando
quel viaggio nei rapporti del mezzo inadeguato e delle difficoltà
di volare dentro e fuori l'atmosfera, raggiungerà una più utile e
scientifica conclusione, ma più finirà per annullare la prima
visione fantastica, così come s'inibirebbe ogni godimento estetico
colui che andasse a teatro con l'assoluto preconcetto d'assistere a
delle finzioni e delle falsità.
In conclusione, per lo Schilirò la critica, o tutto quello che va
sotto il nome di critica estetica, e conseguentemente anche la storia
dell'arte, può avere tre aspetti: o è pura ricreazione, e
allora va intesa come rifacimento spirituale dell'opera; o è un
lavoro logico a posteriori, che sorge in confronto col fatto
estetico, e allora, per quanto nobile, è un vero soppiantamento di
questo; o vuol essere aiuto o mezzo per delibare
l'arte, e allora riesce una fatica vana, perché il gusto non
s'insegna ne si suggerisce. Motivo per cui egli consiglia ai suoi
giovani di buttar via quelli che boriosamente si battezzano commenti
estetici: “Voi non siete creta da plasmare, ne vasi da
riempire. Siete anime libere, che vogliono vivere, ciascun per sé,
in perfetta autonomia” (p.217).
L'ARTISTA
Da questi principi è coi quali il filosofo, con dialettica
semplicissima ma sicura, che lo toglie da qualsiasi preoccupazione di
potersi mai contraddire e doversi quindi correggere, guida l'artista,
e per la quale dà il soffio animatore al filosofo è escono le due
creazioni geniali: Santo Francesco e Il seminatore che non
miete.
Del primo ebbi a occuparmi due volte: una, al suo apparire, per
recensirlo: un'altra, un anno dopo, per difenderlo da un'ipocrita
accusa, che proveniva da un mal concepito rancore, anziché da onesti
scrupoli. Ora non è il caso di dover guardare ai miei due articoli,
inseriti nel settimanale La Croce: articoli confortati poi,
specie il primo, da letterati di maggior competenza. Qui guardo
semplicemente al dramma.
Il poeta, preparato dal grande amore e lungo studio di cui sono
stati nobili indizi raccolta di versi e il maturo sistema
dell'estetica, si trova davanti al mondo osannante alla sublime
figura del Poverello d'Assisi. E, a differenza dei più che
s'inducono a scrivere spinti da tornaconto o dal soffio della moda
che si ficca dappertutto, anche nelle cose sacre, egli s'avvicina al
Santo con la purità e semplicità di cuore dei discepoli di Lui: lo
vede, lo sente, ne respira il profumo e la santità, e può dire che
cosa l'ha mosso a cantare di Santo Francesco: “il fascino della
poesia che ridonda fresca e perenne dai Fioretti; il riflesso
della luce chiara, mite, suggestiva, dei colli e dei ricordi umbri,
della quale ho ancor pieni gli occhi” (Prefaz.). E aggiunge: “Ho
lavorato ben poco di fantasia”.
Non c'era, in verità, bisogno di lavorarci di più se la sua
fantasia, commossa dai Fioretti e dalle più ingenue
pubblicazioni francescane, s'era creata luminosamente viva la figura
del Santo e più vivo, perché più immediato, il ricordo dell'Umbria
verde, visitata poco prima: se, cioè, la storia, quale l'avevano
ritessuta il Sabatier e il Joergensen, per lui era vita, ridondante
di nostalgia pei fantasmi francescani.
Ecco spiegato il motivo del suo voler partecipare con sentimento
addirittura religioso alla grande ricorrenza centenaria. E così si
spiega anche perché egli scelse la forma drammatica, la quale più
s'adatta ai tempi, che mal sopportano i più lunghi poemi, e meglio
si presta a far rivivere le situazioni più salienti della vita del
Poverello.
Ma il Poeta lavorò veramente poco di fantasia? A me sembra invece
che lavorò moltissimo. Poiché, se nulla egli ha tratto da un fondo
arbitrariamente soggettivo, ma tutto ha desunto dalla storia, ciò
non diminuisce affatto l'originalità della creazione: anzi rivela
una virtù mirabile: quella che forma il poeta. La sua fantasia ha
saputo far sorgere dall'ambiente storico, come da un mare agitato e
insieme luminoso, la serafica figura di Francesco, con cui ha
parlato, vissuto e palpitato, nelle verdi plaghe dell'Umbria e in
quelle arse dell'Egitto, nei momenti idilliaci e in quelli tragici o
elegiaci, da solo a solo o in mezzo a quelle anime che, abbandonato
il mondo, si stringevano intorno al Poverello per godere la santa
letizia.
Dominato da questa magnifica ispirazione, lo Schilirò ha
tratteggiato con molta freschezza e con molta luce le scene più
poetiche e più suggestive della vita francescana, riuscendo anche ad
accostare, sapientemente fondendola, la nostra favella a quella del
duecento: elemento formale che non tradisce nessun artificio, perché
nato con le visioni stesse.
Possiamo dire che nel candido volumetto si trova integralmente
riassunta la vita di S. Francesco dal 1207 al 1226: tanto che,
ove non occorresse per ragioni di studio, si potrebbe far a meno di
qualunque delle tante biografie che di lui si sono scritte. Ma la
storia è mi preme insistere su questa osservazione che costituisce
il premio dell'artista e il piacere di chi legge è stata superata
dalla fantasia ed è divenuta realtà poetica: onde il Santo, per il
miracolo dell'arte, ancora una volta vive, palpita e fa palpitare.
Chi può dire che dinanzi alle scene del primo atto non si sia
proprio dinanzi a Francesco, che eroicamente si stacca da un passato
gaio e ancora invitante, e lotta col padre, fino ad avere il consenso
e l'aiuto di Monsignor Guido? Sono scene animate da una ricchezza
mirabile di personaggi, tra cui spicca la Sconosciuta, la
quale, per quanto fugace sia la sua apparizione, desta subito
interesse e mette in ansia il cuore del lettore. È questa un'altra
prova della fantasia del Poeta, che si serve d'un espediente nuovo in
questo genere di dramma. Nell'atto secondo vediamo il Poverello di
Dio nei pressi d'Assisi, quando già ferve l'opera sua in mezzo ai
discepoli. I luoghi non ci vengono descritti: ma dalla vita e
dall'accento dei personaggi spira l'aura dell'Umbria verde, la
Palestina francescana e, più, della Porziuncola, ormai tanto cara
agli ammiratori del Santo.
Una bella sorpresa ci riserva il terzo atto, che rappresenta la
missione di Francesco nell'Egitto. A lui non basta la vittoria su
Melikel-Kamel, che è la vittoria sul mondo; vuole anche la vittoria
sulla carne, la quale fa qui l'ultima e la più violenta apparizione.
Quando il Santo crede di potere, nella libertà concessagli dal
Sultano, iniziare il suo apostolato in mezzo agli infedeli, ecco la
Sconosciuta dell'atto primo, divenuta l'immagine della
corruzione. Egli non la riconosce: ella sì, e si slancia con tutta
la passione e l'ardire della donna che non conosce più il pudore.
Questa scena, non raccolta dalle biografie, è quella stessa che in
forma aneddotica intessono i Fioretti. L'effetto è
sorprendente, e non menoma, come qualche fariseo cercò di malignare,
la casta bellezza della figura del santo: poiché è come rilevai nel
mio citato articolo è anche Gesù esce più splendente dalla
riabilitazione di Maria Maddalena, per la quale il vangelo ha una
delle pagine più commoventi. Lo stesso pio autore dei Fioretti
dovette aver presente l'episodio evangelico se non solo non tralasciò
il fatto, ma lo raccontò con un verismo che non ha nulla da
invidiare a quello dei nostri tempi. Del resto la elevatezza del
Santo, la lotta e la vittoria, il miracolo della conversione riescono
nel dramma così vivi e belli che attraggono nella loro bellezza,
dominandole, le lusinghe della tentazione. E il finale dell'atto
lascia in un'ansia indicibile: quella di rivedere la Sconosciuta, che
parte per San Damiano con un fascino di luce celestiale.
Col quarto atto siamo di nuovo nell'Umbria, tra le mura del pio
monastero dove Chiara bea della sua santità le anime a lei affidate.
Le scene di quest'atto ha potuto solo immaginarle e solo può
gustarle chi, con cuore puro e semplice, s'è avvicinato a cuori
semplici e puri. Omnia munda mundis: e perciò il racconto del
miracolo delle stimmate fatto da frate Leone, le ansie di Maddalena,
le devote e gentili premure di Chiara per gli occhi del Poverello, e
gli slanci del Santo han qualcosa della sublime situazione delle
anime nella valletta amena dell'antipurgatorio dantesco. Tutto l'atto
è un sublime idillio, di cui il Cantico del sole è il finale
magnifico: canto che fa pregustare la musica celeste e al quale
quelle anime si son da tempo preparate, compresa Maddalena, la cui
umanità sembra rinata a nuova vita: la vita che Francesco le ha
rivelato.
Col solito trapasso lirico, nel quinto atto assistiamo alla fine
di Francesco. Com'è vero che Francesco dà luce a tutto! Finora
l'abbiamo visto in mezzo alle sue pecorelle e, pur dolorante, essere
letizia a tutti, così che anche le belle contrade della Porziuncola
piglian quasi da Lui lo splendore e la gaiezza. Ora che Francesco se
ne va, par che tutto si renda conto di questa dipartita e si veste di
malinconia e di tristezza. Il mondo che s'era rinnovellato alla
parola e ai portenti di Francesco, ora crede di tornare indietro.
Sunt lacrimae rerum, sarebbe il caso di dire. E il Poeta, che
ha in sé qualcosa di Francesco, sembra partecipare alle ansie e ai
dolori dei discepoli che intorno a Lui piangono. Da ciò nasce, senza
sforzo alcuno e senza artificio, quel non so che di dolce tristezza
che fa pensare alla sensazione provata dall'Alighieri nella divina
visione: “ancor mi stilla Nel cor lo dolce che nacque da essa”.
Ed è questo il premio delle anime che più si sono avvicinate al
Santo e l'hanno commemorato in ispirito di verità, elevandosi con
Bernardo al di sopra d'ogni pena sensibile e di ogni pianto umano:
No! Ei fu rigenerato
a la gloria celeste.
Finché
l'amore ha un nome,
finché l'amore ha un palpito,
finché
s'ascolta di Gesù la voce,
Francesco vive!
Dinanzi a questo dramma, che tanto ha appassionato i lettori e ha
meritato il consenso di tanti artisti (Antonio Anile lo mette tra la
più bella poesia di questi ultimi anni), chi è abituato alla
tradizionale catalogazione retorica non esiterebbe forse ad
assegnarlo al romanticismo. Non certo a quel romanticismo che fu
l'ultima fase è fase di degenerazione è e ci diede lavori pieni di
morbose affezioni d'animo e d'inutili svenevolezze; ma a quello d'una
vita consapevole e delicata, in cui il patetico, alimentato da una
serie di vicende dolorose, è nobilitato dalla fede e dalle sue
incrollabili speranze. Di esso abbiamo un luminoso esempio nei
momenti migliori del Fogazzaro, il quale, soprattutto nel Piccolo
mondo antico, seppe rappresentare è e farla vivere a quante
anime lo compresero è la vita d'un mondo intimo, profondamente reale
e palpitante verso forme e ideali sublimi, a cui l'umanità ha sempre
mirato con la nostalgia dell'esule alla patria.
Guardato così, il Santo Francesco è l'ascesa d'una delle
più belle vette della vita, e commuove ed esalta quanti si trovano
sulla via dell'esilio a mirare il passaggio dell'eroe, che ascende
col labaro della vittoria.
Dopo di lui un altro eroe ascenderà una diversa vetta, sulla cui
pendice sono altre anime doloranti, ch'egli, passando, incoraggerà,
con la parola buona della fede, verso la cima del monte, dove rifulge
il segno della religione e della patria: e da questa ascensione verrà
fuori la storia dolorosa del Seminatore che non miete.
Tutta una vita spesa nel culto delle lettere e le ansie sopportate
nel periodo dell'immane guerra, da cui la nostra generazione è
uscita come disorientata, han condotto il poeta a quest'opera, che
riflette proprio quel periodo e i primissimi anni del dopo-guerra. Si
vorrebbe chiamarla romanzo o poemetto, a seconda che si guardi alla
favola o alla forma; ma a me pare che abbia qualcosa dell'uno e
dell'altro. Quello però a cui non bisogna dare valore assoluto è
proprio la favola. L'opera s'ha da guardare nel complesso dei suoi
svariati elementi, anche di quelli minimi, che alle volte paiono
insignificanti.
E' per la solita abitudine scolastica di ricercare la fonte o il
motivo ispiratore dell'opera che noi sogliamo dire che dal periodo
dello Sturm un drang escono I dolori del giovine Werter,
dalle vicende passionali del Foscolo e dalle sue delusioni politiche
Le ultime lettere di Jacopo Ortis, e da un'educazione
schiettamente romantica il poemetto Miranda e Il mistero
del Poeta del Fogazzaro. E con codeste opere la nostra potrebbe
assomigliarsi in quello che ho chiamato favola. L'amore sfortunato di
Massimo per Bianca ci rimena a Werter e a Carlotta: l'amore
sacrificato sull'arte della patria ci rammenta Jacopo Ortis; e
l'idillio, sebbene miseramente finito, ci fa pensare a Miranda.
Ma è ripeto è nel Seminatore l'interesse non è destato
dal racconto, che, del resto, è semplicissimo. Massimo, appena
laureato in giurisprudenza, lui stoffa di poeta, incontra Bianca,
un'anima che lo comprende; se ne invaghisce, e si fidanzano. Ma
scoppia la guerra, ed egli s'arruola volontariato e va a difendere la
patria. Viene ferito gravemente e sfregiato orribilmente nel volto.
Tutto è perduto. Che farà Bianca? Sèguita ad amarlo, anche dopo il
sacrificio. Infatti quando egli muore, addolorato dalle discordie
civili che mettono in pericolo i frutti della vittoria e la sicurezza
della patria, per cui Massimo e il suo amico Guidotti hanno immolato
la gioventù, ella si volta a una missione di bene e di civiltà.
Semplice dunque l'intreccio, e nobile: molto somigliante a uno dei
mille avvenimenti pietosi che la grande guerra partorì. Ma è
notevolissimo l'effetto estetico, perché la narrazione, superando
ogni influsso retorico che potesse provenire da ricordi letterari, si
anima della grande esperienza del Poeta e ne rende con immediatezza
le più vive e delicate impressioni. Queste impressioni nascono da
due elementi essenziali e indiscindibili: l'amore di Massimo per
Bianca e l'amore suo per la patria. Il doppio dramma ci vien
illustrato da brevi, fugaci e alle volte indirette notizie, che
paiono epigrammatiche: onde il suo svolgimento è lasciato alla
fantasia del lettore. Ma il Poeta, per una virtù di sintesi
straordinaria, ha saputo infondere tale soffio a quelle fugaci note,
che il lettore vola ad ali spiegate per tutto il campo dell'azione,
ch'è abbastanza vasto. Però tutte le gioie delle ore di speranza,
le angoscie dei giorni tristi, tutta la vita e l'ideale di Massimo
stanno nei suoi canti: poesie di diverso metro, in cui la tecnica
dell'arte è fusa così mirabilmente coi vari sentimenti del poeta,
da formare liriche delle quali oggi, ch'è un continuo affannarsi
alla ricerca d'una forma genialmente nuova, s'ha tanto bisogno.
Bianca non si sente, ma compare in iscena coi richiami di Massimo:
del suo poeta. Non è però meno viva e meno presente. Si sente anzi
che palpita con Massimo. Allo stesso modo s'avverte la presenza di
Pietro Guidotti, che qualche rigo ha scritto e con tanto amore ha
custodito i versi e la memoria dell'amico. Povero Guidotti! Anche lui
ci riesce caro, e soffriamo della sua angoscia quando alla perdita
dei suoi occhi bellissimi, sopportata con rassegnazione per amore
della patria, segue lo schermo dei tristi al suo eroismo.
L'amore della patria: ecco il centro del dramma. Senza
quest'amore, ne il culto di Bianca, ne l'orrenda mutilazione e il
lento disfacimento di Massimo, ne l'accecamento del Guidotti
avrebbero importanza o un significato qualsiasi.
Per esso invece la vita, pur nelle più gravi sventure, diventa
bella, perché dal sacrificio e dal dovere compiuto germinerà una
vita migliore. Concepita così, l'esistenza volge a quell'ottimismo
che comincia a guidare la nostra generazione dopo che si è superato
il disorientamento impresso dalla guerra e si è curato il risveglio
de' valori spirituali. Risveglio benefico anche in letteratura: ché,
dove una piccola corrente vagava ancora negli angiporti
dell'immoralità, per finire in essi, e il futurismo si rivelava
impotente ad infondere nuova vita all'altro depressa dall'immane
accidia ch'esso aveva esaltato, coloro invece, che avevano confidato
nelle migliori energie della Nazione, fanno opera più duratura e
meglio sentita dal popolo italiano. E questa corrente di sano
ottimismo, che ha già superato l'orgasmo dei partiti estremi e ha
visto la Nazione riprendere alto il suo posto nel mondo civile,
possiede ormai una letteratura tutta sua.
Non ultima, in questa, siede l'opera dello Schilirò. La quale,
nel doloroso dramma dell'immediato dopo-guerra, non poteva
rappresentare con colori più vivi e spiccati l'altalena che vi
facevano il pessimismo e l'ottimismo, col logico e assoluto prevalere
di questo. Infatti ai sospiri di massa, culminanti nella canzone Gli
esuli, scritta pel cieco eroe misconosciuto, seguono le belle
speranze di Notte di promessa.
Col Guidotti il Poeta s'era lamentato così:
E' vedo te, muto lo sguardo, fremere
sul Canal
Grande, che riflette, a sera,
l'ostello Vendramin-Calergi, dove
del Tintoretto vaga ancora l'ombra,
mediante le Nozze,
e tacque è ohimé, spezzato è di Riccardo
il canto, d'altre
note sospiroso.
L'avido spirto, no, non ti conforta
de l'Andria la
regina:
non le memorie vive e luminose
onde fulge San Marco,
unica gemma;
non gli echi de le pompe, quando il Doge,
fra
l'osannante popolo, cingeva
l'insegna ambita, e 'l ricco
Bucintoro,
tra innumere galere pavesate
avanzando superbo, si
gloriava
de l'alma Dogaressa, scintillante,
tra le più
belle, di turchesi e vai.
Ivan da la Giudecca, ne le sere
tepide, mentre la
città folleggia
fra canti e suoni, s'alza e lussureggia
una
flora di sogno, che si strugge
e rinnovella in mezzo a luminosa
piova di fronde e petali,
che accende l'acque tremolanti d'oro;
e invan, tentando il malioso specchio,
domandi a la laguna,
che sa i segreti de l'amore, in festa,
che ti riveli il
sublimante arcano
onde le coppie innamorate alletta
al chiaro
di luna,
su scivolanti gondoline brune,
cui da lontan saluta
un infocato accento di mandòla.
Indarno. Leggo nel tuo sguardo spento
l'ansia di chi
dolora e invoca: l'ansia
che ci flagella: spasmo d'una meta
che si dilunga. Mai,
sul pallido tramonto,
han sospirato gli
esuli così:
ché grazia non ispera il bando nostro
finché
le aperte piaghe
saranno altrici di vergogna e turpi
gramaglie aduggeranno i sacrifici
e per l'Italia e per l'amore
compiuti.
Ma, prima che la giornata finisca, torna il sereno:
un raggio dorato di sole...
... il lucido sguardo di
Dio,
che rompe il mistero infinito
e fuga dai cuori basenti
la morte in agguato...
Non poteva essere diversamente. Si scorge subito che il poeta del
Seminatore, è il poeta del Santo Francesco. Come nel primo, così
nel secondo lavoro la sua idealità è la vita buona, cristiana,
dedita al sacrificio e ad una gloria che sdegna i confini terreni; e
in fondo alle speranze dell'eroe, che consuma il massimo sacrificio,
par di sentire l'accento ispirato del Poverello d'Assisi che insegna
la perfetta letizia.
Vorrei chiudere questo breve esame del libro con qualche altro
saggio dei canti, che a mio giudizio sono d'eccezionale bellezza e,
come rubini, scintillano d'immagini e di sensazioni: ma resto
perplesso nella scelta, perché la forma del poemetto è come osservò
Ugo De Maria in Rassegna d'arte è “sempre nobile e suggestiva e ci
richiama, non di rado, alla grande arte fogazzariana. Ma non sì che
qualche volta non se ne distacchi per quadri d'intensa classicità”.
Si legga nondimeno Cosi sognai...
Andavo, andavo solo, trafelando
per la steppa
infinita, irta di rovi.
Chi cercassi non so. Di quando in quando
spiavo l'orizzonte. Nulla. Nuovi
pruenti, nuovi strappi sanguinanti
e nuovi lai. Ma
niuno rispondeva
a le chiamate folli e lancinanti:
neppur
l'eco pietosa si doleva.
Lo narro ai figli che non sono più
sotto l'ali
materne. Disperavo
pur de la mamma mia, ch'era lassù,
di lei
che un solo istante non scordavo.
Confesso subito: sbagliai. Straccato
già
m’abbattevo su gli sterpi acuti,
vagente come bimbo, quando
allato
m'apparve lei... e ci guardammo muti.
Lieve, più bella, mi levò in braccia
e, adagiando
sul seno immacolato
la mia dolente lacrimosa faccia,
m'accarezzava il corpo tribolato.
Che carezze, che baci mi donava!
E da le poppe, che
m'avean nutrito,
tal rigagno d'amore zampillava,
che mi
sentii tosto inanimito.
Rideva il sole, e mi parean fallaci
financo i pruni;
ond'io m'addormentai
con la dolcezza in core di quei baci.
Lo
dico ai misteri: così sognai...
E se si vuole un saggio di poesia patriottica, si legga Oslavia:
Un'alba livida, nebbiosa, scioglie
le bende al
Sabotino
scabro, puntuto. Ombre pugnaci sguisciano
da
l'insidiose balze butterate
e per gli anfratti sfilano.
Nel
cielo ronzano mostruose sfingi
è cuori di fiamma, antenne
fucinate
dal dio vulcano. Là, verso ponente,
brillano razzi,
occhi giocondi e vigili:
rispondono barrendo,
come impazzate
belve,
mille cannoni, e laceranti fischi
frugano i campi nel
silenzio armati.
Su l'orizzonte torvo
un gran bagliore fumido si
sfrangia:
e tonfi ed ululi rullìi sinistri
scuotono Oslavia,
pavida, assonnata.
All'erta! è l'ora!
Un grido immenso erompe
sotto il
terrazzo impervio,
e deliranti ondate
di balda giovinezza, ne
la luce
incerta, frangonsi su la scogliera,
ciclopica
fornace.
Ansiti; luccicar di spade; appelli;
imprecazioni
orrende;
e sangue... sangue... cui
bieca e senza pietà l'ira
calpesta.
. . . . . . . . . . . .
Alto, sul rogo eroico,
ronza lo sciame alato. I
campi fumano.
Straziati corpi è effigi di galestro è
posano
immemori. Nell'occhio fiso
l'anima fulge di pensosi vati
nel
destino fruganti. E intorno svolano
vendicatrici l'ombre non
placate
di cento pugne, d'inumane forche,
di fulgide
riscosse.
Impaziente, altero, speranzoso,
l'Isonzo incìta:
Avanti, Italia, avanti!
RACCOGLIMENTO OPEROSO
Nella Tribuna del 2 gennaio del 1927 Filiberto Scarpelli,
direttore del Travaso, pubblicava un trafiletto dal titolo “Uno
spostato che è sempre a posto”, col quale invocava dal Governatore
di Roma la rimozione della statua di Nicola Spedalieri dalla piazza
di S. Andrea della Valle. L'inopportuna richiesta, che negli uffici
amministrativi dell'Urbe prese le parvenze d'un provvedimento
edilizio, addolorò la cittadinanza brontese che elevò subito una
dignitosa protesta. Vincenzo Schilirò, facendosi portavoce dei
sentimenti dei concittadini, scrisse due nobilissimi articoli, uno
sulla Croce del 13 gennaio e l'altro sul Giornale dell'Isola del 16
gennaio 1927, per richiamare l'attenzione del Governo sulla delicata
questione e per difendere la genialità del filosofo siciliano dagli
attacchi irrispettosi ed ignoranti dello Scarpelli. Gli articoli
ebbero un'eco favorevole nelle sfere intellettuali e governative, e
la statua restò al suo posto. Quest'occasione fece vedere che il
polemista del Domani! conserva intatto il natio vigore combattivo e,
ancora una volta, riusciva a far valere il suo punto di vista, basato
sulla giustizia e sorretto da valide ragioni.
Vennero in seguito, e come puramente occasionali, due opuscoletti:
F.T. Marietti e il futurismo, scritta in occasione che lo Schilirò
assistette a una conferenza del Marietti; e Nozioni di letteratura
(1929) per le scuole medie. Si tratta di due brevi lavori, destinati,
più o meno, tutti e due ai giovani, ma cui lo schema si delinea
netto e l'esposizione chiara, precisa e linda, non meno di quella
delle altre opere. Qualunque cosa lo Schilirò imprenda, si constata
sempre meglio che la lucidità è dote essenziale sia del suo
pensiero che della sua espressione; cosicché m'è occorso veder dei
giovani, ordinariamente impacciati dinanzi a certi manuali
scolastici, uscir persuasi e contenti da questi dello Schilirò.
Il quale, pur lavorando per la scuola, non cessa di pensare alla
causa dell'arte, che è vita della società.
Negli Appunti d'Estetica egli ribadisce, è vero, l'idea crociana
che l'arte non ha nulla a vedere con la moralità, ma insiste anche
sul concetto manzoniano che l'arte deve servire alla moralità; e
l'artista, nell'ispirarsi e nel comporre, deve accarezzare ed
accogliere quelle visioni che tendono non a corrompere ma ad educare
i costumi sociali. Ispirato poema drammatico Il Carroccio, opera di
passione patriottica e di fede religiosa, che ci riconduce alla
calata di Federico Barbarossa in Italia nel 1162, alla distruzione di
Milano e alla gloriosa gesta della Lega lombarda, culminante nella
battaglia di Legnano.
Il lavoro è veramente un poema, perché, nonostante del dramma
abbia la forma e le proporzioni, pure la sostanza drammatica e
fantastica si fonde così con l'ampia visione storica di quel
luminoso periodo da formare un poemetto, una piccola epopea, dove
l'autore profonde bellezze di scene, di verso e di lingua. Pel valore
poetico Il Carroccio fa il paio col Santo Francesco; e penso che se
la crisi del teatro e le difficoltà della messa in scena non ne
ostacolassero la rappresentazione, l'effetto e il successo de' due
lavori sarebbero sicuri.
L'attuale sosta dello Schilirò è solo apparente. Il suo
raccoglimento è invece operoso; ed io, che per l'intimità
dell'amicizia ho potuto seguire la sua attività e leggere parecchi
manoscritti suoi, posso dire senza commettere indiscrezioni ch'egli,
oltre a lavorare per gli studenti (pei quali sta volgendo in chiara
prosa la Divina Commedia), ha già pronti un racconto veronese dei
tempi scaligeri, un dramma moderno Ombre e luci e una commedia, Gente
per bene.
Scrupolosissimo educatore della gioventù, il poeta si mostra
molto restìo a licenziare gli scritti alla stampa, per delicate
ragioni d'opportunità; e d'altra parte si vede costretto trarre i
suoi insegnamenti morali da visioni della vita moderna, di cui la
gioventù è purtroppo continua spettatrice. Proprio quello che
succedeva al Parini. E con lui m'auguro sarà d'accordo lo Schilirò
nel vincere la sua riluttanza a pubblicare.
Ombre e luci è un dramma d'ambiente veneziano. Dopo la guerra e
sullo sfondo delle bellezze lagunari, la corruttela
dell'aristocratica vita mondana apparisce in aperto contrasto con la
coscienza educata al dovere e sorrisa da un raggio di vita pura. Il
lavoro è molto ricco di poesia; ed il terzo atto è intensamente
drammatico.
Gente per bene sembra, a prima giunta, scritta tanto per far
ridere e in un momento di buon umore. Ma quanto amara realtà non si
nasconde sotto quel velo faceto, e quanto sarcasmo in quel sorriso,
per cui pare che l'autore si sollazzi! Ha la commedia tal vivezza di
rappresentazione che vorrei definirla una parodia poetica della vita
minuta che si vive nei ceti più avidi e boriosi della società
moderna.
Son sicuro che, pubblicando questi lavori, lo Schilirò darà ai
lettori un vero godimento.
Non sappiamo quale sarà l'attività di questo fervido ingegno ora
che, ritiratosi dalla scuola, passa la calda estate in un'amena
villeggiatura sui monti natii e il resto dell'anno nella sua poetica
dimora sita in uno dei punti più deliziosi di Catania. Io credo che
mi sia lecito di poter ripetere: “De' tuoi canti il nido è Il covo
de' tuoi sogni io ben lo so”. Altri fantasmi animeranno ora la sua
fantasia, e altri problemi dell'estetica, su cui nessuno può
presumere di dir l'ultima parola, saranno meditati.
Probabilmente i lavori, cui accennammo, vedranno la luce, ed altri
ne saran preparati, e forse sarà scritto quel romanzo che da tempo
aspetta d'essere scritto. Il ritiro dalla scuola, insomma, e
quest'appartarsi, che per lui si chiama riposo, ci fa sperare
moltissimo.
Ciononostante, egli può voltarsi indietro e guardar con animo
pago e rilevare che le opere sue non sono molte, ma nemmeno poche.
Fortuna anche questa: per lui, che, pur potendo, non ha voluto mai
scrivere in fretta e a cuor leggero; per noi che abbiamo il piacere
di trovare l'artista già formato in quasi tutti i lavori, eccettuate
(come a suo luogo ho accennato) Primavera triste che si deve agli
anni giovanili del poeta, e qualche traduzione, che, per esser
traduzione, non può naturalmente valer un'opera originale.
In quasi tutti i lavori dello Schilirò, ho detto, possiamo veder
l'artista già formato. Ma qui vogliamo rivolgere, per l'ultima
volta, lo sguardo all'opera intera e veder l'ascendere di questo
scrittore, non a segnar diverse tappe nel suo cammino, bensì a
raggiungere la vetta luminosa d'un monte acquistato, starei per dire,
in brevissimo tempo. Lo si è osservato critico, pensatore e poeta. E
queste non sono tre attività diverse, ma tre facce dell'unica
attività del suo spirito: ché egli è essenzialmente poeta, a
qualunque cosa attenda.
A considerare infatti le prime opere sul Carducci, si nota la
grande diligenza delle ricerche storiche e filologiche, ma s'avverte
in pari tempo che l'A. è così padrone di tutto l'insieme che
dimentica d'esserne il critico e lo storico, e diventa è senza che
lo voglia o se n'avveda è il biografo geniale, il quale a chi non
s'interessa del fatto letterario diventa un ameno romanziere. Così
si legge La credenza carducciana e, soprattutto, Il Romanticismo e
gli amici pedanti. Anche senza i posteriori lavori, noi avremmo
ugualmente visto nello Schilirò le virtù di saper rappresentare i
caratteri più disparati nella scena della vita. A questa virtù
geniale si aggiunga la semplicità e limpidezza del dettato, che sa
della tradizione manzoniana ormai uscita sicura dalle molteplici
disquisizioni sorte intorno allo spinoso problema della lingua.
Codesta virtù d'assorbir tutti gli elementi formali, di comporne
un corpo e presentarlo vivente, a principio la vediamo esercitarsi
intorno a figure storiche; appresso intorno alle intricate questioni
dell'estetica. Ed è la stessa attività, ma naturalmente più
complessa. Quel che prima era piuttosto un racconto o il dibattimento
critico d'un fatto letterario, diventa poi meditazione solitaria di
chi vuol rendersi conto del proprio ufficio di critico. E' la
situazione del pensatore. Ma l'artista è sempre quello.
Più tardi ci troveremo dinanzi allo scrittore che da un lato ha
acquistato maggiori esperienze, dall'altro sente il bisogno di
condensar i pensieri per essere più breve, pur mantenendo la
medesima chiarezza d'esposizione e limpidezza di dettato. Che
l'artista sia sempre lo stesso, non c'è mediocre lettore che non lo
veda; ma che passi di gigante da La credenza carducciana ad Appunti
d'Estetica, e da questi a F.T.Marinetti!
Nella prima opera è lo scorrere del ruscelletto visibile quasi
onda per onda: scorrere che non si riconosce più nell'ultima
attività giornalistica, dove la varietà del periodare e gli
elementi espressivi s'integrano così, che è difficile distinguervi
è per ritornar alla metafora è onda da onda. Là è il periodo
semplice ed una lingua che sa tutta la trafila dei grandi scrittori
nostri; qui è il soccorrere del periodo all'ampiezza e alla
complessità delle idee, è una lingua che l'uso ha arricchito anche
di solecismi, provincialismi e perfino di barbarismi, già accettati
dalla nazione e diventati, come per incanto, di buona lega. Tanto, il
giornalismo è strumento dei rapporti internazionali è oggi ha fra
noi più cultori che non ne abbia Dante; e, se si vuol essere
scrittori popolari, bisogna non guardar soltanto al Tommaseo, al
Leopardi, al Manzoni e nemmeno è molto meno è ai trecentisti, la
cui importanza sta in altri pregi. Basta dar un'occhiata ai
vocabolari del Fanfani-Rigutini e dello Zingarelli per veder che
abisso c'è fra scrittori e scrittori, fra vocabolario e vocabolario.
Tutto questo è concludendo è ci rimena a dover considerare lo
Schilirò come poeta che assomma in sé le virtù d'uomo, di
letterato e d'artista. Poeta, ha scoperto, almeno in parte, il mondo
del suo spirito, incapace di chiudersi in sé, bramoso d'espandersi
quanto più sia possibile. Per ciò la sua cultura diventò arte,
perché in lui cultura e vita sono uno stesso palpito; e per ciò il
suo spirito è asceso alto, con una dignità tutta sua, e l'eroe che
più l'accende è perché anche lui inclina all'amore degli uomini e
della natura è Santo Francesco. Non a torto quel dramma è fra i
lavori suoi che più gli stanno a cuore.
Bibliografia
di
VINCENZO SCHILIRO'
*
L'ARTE
POETICA DI ORAZIO è Traduzione in versi, 1910.
IL
ROMANTICISMO E GLI “AMICI PEDANTI” 1912.
PRIMAVERA
TRISTE è Versi, 1912.
LA
CREDENZA CARDUCCIANA E SUO VALORE è
Prima ed. 1912; seconda
ed.1917.
IL
COLPEVOLE è Dramma, 1918
I MOTIVI
ESTETICI DELL'ARTE D'ANNUNZIANA è
Giannotta, 1918.
BRICCICHE
LETTERARIE è Rinascente, 1921.
APPUNTI
D'ESTETICA E STORIA
DEL PENSIERO ESTETICO, 1924.
SANTO
FRANCESCO è Poemetto drammatico, 1926.
NOTIZIE
DANTESCHE PER GLI STUDENTI DI LICEO è
Galatola II edizione 1927.
IL
SEMINATORE CHE NON MIETE è racconto lirico, 1927.
F. T.
MARIETTI E IL FUTURISMO, 1928.
NOZIONI
DI LETTERATURA, 1929.
IL
CARROCCIO è Dramma, 1931.
Finito di stampare il
30 giugno 1931-IX
coi
tipi de “L'italgrafica”
Milano, Via Balestrieri
N.6
- Telefono 92-086