Antonino Schilirò
SCRITTI DANTESCHI
Maletto 1914
La prima gita di
Vergilio alla Giudecca
e
“Per la città del foco”.
Conservo qui il manuscritto originale di questi due piccoli studi
danteschi, che pubblicai nell'aprile del 1914. Vorrei copiarlo, per
conservarlo in buone condizioni, come soglio fare per ogni mia cosa,
ma la mia salute non me ne consente la fatica. E poi..., nonostante
allora il tipografo me lo consegnasse nelle brutte condizioni, in cui
si vede, mi piace conservare proprio l'originale, con la revisione e
quelle due noticine del mio diletto maestro Mons. Salvatore Romeo e
col permesso del compianto Mons. Emilio Ferraris. Tanti cari ricordi
in uno!
Maletto, 20 novembre 1932.
Arcipr. Antonino Schilirò
Alla
memoria
Di mio zio
Sac. Antonino
Schilirò.
Noch steht vor mit sein herrlich Bild...
Wie war er dort der Erste stets,
Die edle Kraft nur sein Gesetz
Lenau:
Faust.
Maletto, aprile 1914.
La prima gita di Vergilio alla Giudecca.
Inf. IX:22-27.
Il breve compito propostomi è, per sé, intimamente connesso a
due questioni: una, la pretesa magia di Vergilio; l'altra, il fine
per cui egli scese fino alla Giudecca.
Della prima non intendo occuparmi, perché essa è stata discussa
da tanti e insigni dantisti e sciolta, col solito suo acume, dal
D'Ovidio
così che possiamo restar paghi delle sue giuste conclusioni. Resta
da esaminare la seconda questione, cui o nessuno s'è affacciato
affatto o qualcuno ha guardato unilateralmente e con risultato
pressocché insoddisfacente.
Cercando di poterla sciogliere, io mi domando: Perché Vergilio
fece il primo viaggio per l'Inferno dantesco? Come
allora poter chiamar il «cerchio di Giuda» la Giudecca, se
quegli non v'era ancor disceso? In base a quali leggi egli compì
codesto suo primo viaggio? Che vi poté intanto osservare? O qual fu
lo spirito, che andò a trarre di lì?
I.
Vergilio, poco dopo morto, fece il suo primo viaggio per l'Inferno
dantesco, essenzialmente diverso da quello del sesto libro della sua
Eneide, perché, alla volta di parecchi secoli, esso sarebbe stato
necessario a Dante. Il quale, attraverso un mondo sconosciuto e agli
scoraggiamenti dinanzi agli ostacoli «sì del cammino e sì della
pietate,» ebbe poi di fatto il bisogno d'una guida esperta e sicura,
che gli dicesse
Ben so il cammino; però si fa securo.
Senza quel primo viaggio, Vergilio non sarebbe potuto esser mai
una guida esperta di Dante, il quale, dovendo imitare, non poteva
tuttavia prendere a modello l'Inferno dell'Eneide ideato su basi
pagane, mentr'egli, pur rifacendo un pagano (Aristotele), attuava le
dottrine cattoliche.
Bisognò quindi non tener conto dell' Inferno dell'Eneide; bisognò
aver Vergilio esperto nel nuovo inferno, per altro verso; e, siccome
anche questo era in parte malagevole, Dante ricorse a un espediente
poetico: espediente tra pagano e indifferente, tanto che Vergilio gli
potè dire: «Ben so io il cammino.» E dico tra pagano e
indifferente, perché, se da un lato Eritone si permettesse di far
sue arti co' riti pagani, dall'altro lato Vergilio resta puro di
qualsiasi complicità, come nel citato studio ha messo in luce il
D'Ovidio. Vergilio non fu mai profeta né complice d'Eritone, né
mago quale lo finse il Medioevo: egli fu dantescamente l'oppresso di
quella Eriton cruda
che richamava l'ombre a' corpi
sui:
l'ombre, senza alcun riguardo, purché le fossero utili.
Tale espediente gli fu suggerito da Lucano col notissimo luogo del
sesto libro della Farsaglia, dove Eritone non solo è descritta
nell'atto di rianimar un giovine soldato per far predire a Sesto
Pompeo l'esito della battaglia di Filippi, ma anche nelle sue
abitudini o riti di maga, cui non potevano resistere nemmeno l'ombre
di coloro, che della magia sapevano solo il nome e il significato.
Questo appunto diede a Dante il filo di tessere l'ordito della sua
leggenda, facendo che Vergilio fosse uno de' malcapitati tra le mani
della brutta strega e servisse a un di costei fine per dover poi
inconsciamente servire anche a Dante.
Tralascio qui di riassumere e ritrattare il suddetto luogo di
Lucano, per cui rimando allo studio definitivo del D'Ovidio, essendo
inutile aggiungervi altra parola: basta tener fermo che Dante,
rifacendo il racconto per conto suo, non contaminò di magia
Vergilio, ma ne fece solo uno strumento inconsapevole d'Eristone, un
risuscitato poco dopo morto, un messo fino alla Giudecca da
restarvi in ostaggio «ne cessissent leges Erebi» e per farne un
traditore della maestà. Il resto che Dante aggiunse a questi
punti poeticamente tradizionali, vale a completar il «plausibile
pretesto onde la sua guida si trovasse già esperta del viaggio.»
Non si tratta più, qundi, d'una passibile tradizione giunta fino
a Dante e poi dispersa; e sta il fatto che Vergilio, tradi zione o
non tradizione, scese fino alla Giudecca e potè poi dire a Dante:
«Ben so il cammino.»
II.
Senonché la prima questione sorge sulla soglia del nuovo
racconto.
Quando Vergilio scese per la prima volta alla Giudecca, Giuda non
v'era ancor disceso, scendendovi poi circa tredici anni dopo. Come,
dunque, potè Vergilio chiamare «di Giuda» quel cerchi? Non si dica
ch'egli lo chiamava così ora, dinanzi a Dante; che, tra la prima e
questa, egli non vi scese altra volta e non sa perciò ancora come si
chiami il cerchio, che allora doveva naturalmente denominarsi Bruto e
Cassio, i due che vi campeggiavano.
A sciogliere questo dubbio rimangono due vie: o attenersi
all'opinione che in Giuda si fosse verificato il fatto di
frat'Albrigo; o ammettere che Vergilio chiamò «di Giuda» il
cerchio de' traditori della maestà perché, avendo sentito nel Limbo
i fatti concernenti la morte di Gesù, sentì anche i fatti del
traditore, che si strangolò e cadde poi nel più profondo cerchio
dandogli il suo nome. L'una e l'altra ipotesi potranno, io credo, far
un po' di luce su questo punto.
Il contrappasso di frat'Alberigo non è in lui una cosa singolare,
e, Dante vide ch'era teologicamente impossibile, lo fece possibile
poeticamente, precludendo nello stesso tempo ogni via a una possibile
conversione: l'anima — in genere — del traditore, cadendo nella
Giudecca prima della morte, vi resta eternamente per la legge:
«Lasciate ogni speranza voi che entrate;» e nel corpo, ch'è
rimasto quaggiù apparentemente vivo, non otrà mai pentirsi
il demonio andato a sostituirvela.
Sono così, dunque, condannati tutti i traditori;
giacché agli occhi di Dante quel, che religiosamente fu grande in
persona di Giuda, fu politicamente grande in persona di Bruto e
Cassio.
Ma come dar a Giuda un tal castigo dodici o tredici anni prima
ch'egli perfin sognasse il tradimento di Gesù? Difficoltà
grandissima a meno che non si pensi a una vita abitualmente
traditrice di Giuda, il quale così andava disponendosi di male in
peggio fino a poter ordire il supremo tradimento, e non s'attribuisce
il castigo Dantesco al primo tradimento, che Giuda avesse fatto. Se
ciò avvenne, quand'egli poi commise il tradimento di Gesù, il suo
corpo era già governato da un demonio e l'anima sua si trovava da un
pezzo rovinata «in sì fatta cisterna.»
Tutto questo è ovvio, tanto più che Vergilio, avendo visto nel
Limbo Gesù «con segno di vittoria coronato,» dovette certamente
aver notizia di Giuda, che per la sua parte concorse a quella
vittoria: tra l'anime pie dell'antico Patto e quelle, che, pur non
avendo il battesimo e non avendo adorato debitamente Dio, anch'esse
erano pie, ci dovette essere un colloquio, una specie di congedo, in
cui il discorso naturalmente fu della grazia tanto attesa e del come
fu conseguita. E qui Giuda non poteva non entrarci, anche ne' più
minuti particolari, cosicché Vergilio poté insomma apprendere anche
il castigo preventivo.
III.
Sceso fino alla Giudecca e rimastovi necessariamente — non si sa
quanto — in ostaggio, Vergilio, così inconvenientemente trattato
da Eritone, non cessava tuttavia d'essere «l'altissimo poeta,» cui
perfin la divina Giustizia aveva usato un grande riguardo. È quindi
presumibile che anche laggiù egli avesse de' riguardi, come del
resto avviene in questo mondo, dove, in tempo di guerra, gli alti
personaggi presi in ostaggio son sempre trattati da pari loro: altro
che carceri o pene. L'ostaggio alle volte, come nel caso nostro, è
convenzione, cui nemmeno la legge può cedere. Egli allora vi rimase
non confitto, come gli altri, nella ghiacciaia, ma libero e forse
senza nemmeno sentir l'intenso freddo; poiché non sappiamo ch'avesse
la sensazione de' varii cerchi, come l'ebbe Dante, che con sé «avea
di quel d'Adamo.»
Vergilio, pur costretto a una disonorevole missione, divenne a
quel modo press'a poco un privilegiato come e prima di Dante; e,
stando — quanto che sia — nella Giudecca, dovette, anche per
curiosità, peragrarla e veder Lucifero e come era confitto dentro
Dite. Lo dimostra la netta descrizione ch'egli ne fa poi a Dante e il
modo come si rivolge «in sul grosso dell'anche» alla «naturale
burella.»
Si direbbe che, s'egli fece il primo viaggio per essere guida
esperta di Dante e il suo viaggio finì con la vista di Lucifero,
anche con essa dovesse finir la sua missione. E l'obiezione sarebbe
giusta. Ma egli osservando com'era Lucifero fitto dentro Dite, scorse
di sicuro la «natural burella», in cui dava la parte inferiore di
Lucifero, ne potè anche domandar per grazia a qualcuno de' dannati
di quel lugo, i quali qualche cosa dovevan certo sapere; oltre che,
quando si licenziò da Beatrice con l'onorifica missione
d'accompagnar Dante, poté da lei esser ammaestrato sul resto del
cammino, che prima non aveva mai fatto. Questo è più verosimile, se
si pensi poi che quasi tutti attribuiscono anche a Beatrice la
promessa del «Tal ne s'offerse.»
Non tutte, del resto, sappiamo le promesse che Beatrice certamente
fece a Vergilio assicurandolo del buon esito della missione.
O l'informò anche Beatrice intorno al Purgatorio? Sino
all'isoletta sì, dove un Angelo menava in «vascello snelletto e
leggero» un gran numero di spiriti. Altrimenti, come al «Più
lieve legno convien che ti porti» di Caronte potè Vergilio
capire e rispondergli, quasi sorridendo: «Caron, non ti crucciare:
Vuolsi così colà dove si puote Ciò che si vuole, e più non
dimandare?»
Dell'intese ci dovettero essere per forza.
Usciti, per altro, sul solingo piano, né Dante né Vergilio
stesso hanno più bisogno d'essere istruiti come dell'Inferno. Qui
tutto era da cercarsi al buio d'una notte profonda, lungo vie
pressoché impraticabili, dentro un vero laberinto; lì invece tutto
è chiaro alla viva luce del sole; e i due pellegrini, pur
domandando, possono non interrompere mai il cammino, anzi, a un certo
punto, il poeta ci dice: l'«usanza fu lì la nostra insegna.» E,
nel caso stesso di dover domandare, non hanno più a buon conto a
tener d'un altro Caronte o de' demoni della città di Dite: tutto lì
è propizio.
IV.
Comunque, fino alla Giudecca Vergilio fu peritissimo del viaggio,
perché v'era sceso altra volta a trarne uno spirito. Chi fu mai
costui?
Il fatto che Vergilio accennò solamente a codesto spirito,
e Dante non si curò di domandargli chi fosse, molto più ch'egli
finse quella prima gita per aver così una guida dotta del cammino:
tutto ciò è concorso a togliere agli studiosi il desiderio di farsi
perfino la domanda. Oggi qualcuno la domanda se l'è fatta e ha anche
cercato di dar la risposta. C'è egli riuscito?
Non si dimentichi che il poeta, rifacendosi al racconto classico,
conservò intatta la particolarità di Lucano: «Ut modo defuncti
tepidique cadaveris ora Plena voce sonet;» e l'asserì il
maestro, che gli disse:
Di poco era di me la carne nuda;
e di “poco” non significa certamente uno, due o tre anni fa.
Ciò non importa per l'opinione messa avanti dal Piersantelli,
il quale sostiene che lo spirito tratto da Vergilio è Giuda o il suo
Satana. Il fatto stesso di questo tentennamento dà l'impressione
immediata che non si deve trattar né di Giuda né del suo Satana. Di
Giuda non dovrebbe aversi nemmeno il sospetto; che non regge il
confronto tra il generico «un spirto» e lo specifico «cerchi
di Giuda, in cui abbiamo una distinzione d'intuitiva evidenza.
Né può trattarsi del Satana di Giuda, che varrebbe a dire lo
Spirito animatore del cerchio di Giuda. Si sa che tale spirito
animatore d'un cerchio in Dante non è che un concetto speculativo il
quale costituisce una specie della categoria d'un peccato e che
quasta specie nel cerchio di Giuda è il tradimento della maestà. In
base a questo concetto, Dante non fece che continuamente individuare
per poterci dare la sua Commedia, e così non vide più il
tradimento, ma il traditore: Giuda, per es., colto in flagrante e
condannato così nella Giudecca.
Si tratta, quindi, non di fantasma, ma di realtà.
Messa da parte l'opinione, che il Piersantelli pur sostiene con
una certa destrezza, e non curandoci d'altre opinioni anche
recentissime, su cui si deve più o meno con piacere sorvolare, è
utile fermarci un po’ sull'opinione dello scrittore della Civiltà
Cattolica.
Dovendosi trattare — dic'egli — d'un traditore della maestà
di cui Vergilio potè aver notizia tanto che Eritone ne invocasse i
buoni uffizii, tal traditore non potè esser al tri che Cinna, il
quale attentò alla vita d'Augusto, da cui fu quindi perdonato. Il
tradimento, secondo Seneca, sarebbe avvenuto il 738 (14 a.C.) e
proprio allora l'anima del traditore scese nella Giudecca.
Com'è facile osservare, contro l'opinione dell'egregio dantista
militano due motivi, ch'egli cercò di sfatare con molto ingegno. Se
Vergilio, quando scese nella Giudecca, era morto di fresco,
come potè andare a trarne l'anima di Cinna, che commise il
tradimento due anni dopo (e perché non quattr'anni dopo?)
della morte di lui. Il dantista se la cava col dire che uno può dir,
anche dopo quattr'anni, «io sono morto di fresco,» ma non
bada che l'espressione dantesca «Di poco» è affatto uguale al
Modo defunti tepidique cadaveris» del modello preso a
imitare, e che, nella necessità di rivestire la sua nuova leggenda
dell'antica veste classica per renderla più verosimile, Dantee non
poteva rifiutare certe leggi, che Lucano ammise come indispensabili.
E, se l'anima del traditore, che cade nella Giudecca appena
verificatosi il tradimento, non può più uscirne («Lasciate ogni
speranza voi ch'entrate!») se non per qualche caso e per breve
momento e previo l'ostaggio, come mai Cinna potè, nel breve momento,
pentirsi del suo delitto? Cosa assurda; oltre che allora «cessissent
leges Erebi» e Vergilio, andatovi in cambio, sarebbe rimasto lì
eterno ostaggio: il che non fu.
Quel, che peggio, è che il suddetto scrittore fa che Cinna si
penta laggiù del suo delitto! É ammissibile un tal pentimento, che
finisca con la liberazione? O perché Bruto e Cassio non si son mai
pentiti per esser liberati? — In grazia del perdono di Augusto
risponde egli, fu liberato Cinna. — Sennonchè io penso che anche
Gesù, più potente di Augusto e che avrebbe potuto scender egli
stesso alla Giudecca come scese nel Limbo, perdonò Giuda, e questi
ne si pentì né fu liberato in forza del solo perdono.
Per questo, io insisto che l'anima caduta nell'Inferno e
giudicata da Minosse non ha più speranza alcuna di ritornar al
mondo, dove nel corpo del traditore, apparentemente vivo, c'è
un demonio, il quale non può non aver la «perseveranza nella colpa
del tradimento.» La legge della Tolomea è assoluta, non
condizionata, e se Dante disse:
maledizion sì non si perde
che non possa tornar l'eterno amore,
mentre che la speranza ha fior di verde
non disse affatto della maledizine, che
colpisce con la sentenza di Minosse i condannati all'inferno, ma
coloro che erano ancora ben vivi, diversi da' traditori che realmente
son morti; e si trattava poi di Manfredi, il quale sebbene gran
peccatore, poteva dire d'aver peccato d'amor traviato e, col
pentimento e la speranza, d'aver riacquistato «l'eterno amore.» Si
trattava, insomma, d'un'anima del Purgatorio.
V.
Il suddetto scrittore della Civiltà Cattolica si
meraviglia che del fatto, da lui tirato per forza in ballo, non si
sia interessato Tacito. Se ne sia o no questi interessato, a noi non
importa, quando invece ci ricorda un fatto, che potrebbe far al caso
nostro.
A proposito de' giudizii favorevoli e sfavorevoli su Augusto,
Tacito, ricordando le nemicizie di lui con Sesto Pompeo e poi la pace
di Brindisi e di Taranto, conchiude che Augusto mantenne la pace:
«Pacem... verum cruentam: Sollianas Varianesque clades,
interfectos Romae Varrones, Egnatios, Iullos;»
e intende dire che Augusto per rassodar la pace mandò a morte,
coloro i quali volevano disturbarla, attentando alla sua persona. Tra
essi ci fu Egnazio Rufo, che le attentò nel 735 (19 a.C.) e fu
subito condannato a morte. Non c'interessiamo di questa: quel, che
c'importa, è ch'Egnazio aveva consumato il delitto ed era, quindi
sceso nella Giudecca qualche mese prima di morir Vergilio.
Quando avvennero quegli attentati cercava di sfasciarsi il secondo
triumvirato d'Antonio, Lepido e Ottaviano, i quali miravano a demolir
il dominio di Sesto Pompeo; e fu allora che questi dovè far
grand'uso della maga Eritone per sapere continuamente l'esito delle
sue varie azioni guerresche: quello del sesto libro della Farsaglia
non è che uno de' tanti fatti. Nel 35 (19 a.C.) intanto le cose di
Pompeo precipitarono, tanto ch'egli fuggì nell'Asia Minore, dove
infine fu ucciso.
Ora, è probabile ch'egli, in que' supremi istanti, per conoscere
quale fosse la sua situazione e il suo avvenire, interrogasse —
comecchessia — la sua fida maga; la quale servendosi del gran poeta
testè morto in grande rinomanza, fece evocar l'ombra d'Egnazio,
anch'egli morto da poco tempo e che, per essere stato a parte de'
segreti d'Antonio e Ottaviano, doveva saper naturalmente qualcosa
anche di Pompeo, che fu poi ucciso da un ufficiale d'Antonio.
Coincidono così il tradimento d'Egnazio e la morte di Vergilio
con gli ultimi giorni di Pompeo e l'ultime gesta della sua maga, la
quale a buoni conti viene a esser longeva.
Ma, ripeto, si tratta sempre di probabilità e forse nessuno dirà
mai l'ultima parola. Il certo però è che Vergilio, forse per
rispetto al suo buon Augusto e per non ricordarne il nome nella sua
involontaria complicità a' desiderii del nemico Pompeo e della cruda
Eritone, non fece che accennare e passare avanti; che Dante capì la
sua circospezione e non osò esser importuno; che tanti secoli di
silenzio sulle parole di Dante hanno finito di rendere sempre più
enimmatico il fine prossimo della scesa di Vergilio alla Giudecca. La
nostra, quindi, non è che una delle opinioni, la più verosimile;
perché, se un tal fatto ha da rintracciarsi nella storia, questa non
ci dà altro di più plausibile.
"Per la
citta del foco"
Inf. X-22.
Nonostante qualche esitazione, è certo ormai che Dante prese a
modello dello schema penale del suo inferno le tre categorie
aristoteliche e, nella seconda zona, che comprende il cerchio sesto e
settimo, condannò la seconda, la Bestialità.
Il fatto però che Aristotele attribuì a questa solo i vizi, che
Dante condannò nel cerchio settimo, ha dato agio a qualcuno di dire
che l'Eresia del cerchio sesto non appartiene alla bestialità e, non
potendo evidentemente appartenere all'incontinenza, sta per sé0.
S'è così considerato il cerchio sesto come un germano del Limbo e
del vestibolo. E l'idea, in gran parte, è stata rafforzata dal non
aver badato che Aristotele allora non poteva nemmeno sognare
dell'Eresia.
L'Eresia poi, — se si eccettuino il Flamini1,
il D'Ovidio2
e lo Scartazzini3
che ci vedono qualcosa di più ampio ma non per insistervi, —
secondo i più s'è ridotta a essere quella specie, ch'è condannata
da noi cattolici. Erroneamente; perché Dante non ebbe di mira solo
un lato dell'umanità, ma tutti i lati, come vedremo indagando se
l'Eresia sia piuttosto un genere, che comprenda varie specie; se sia
consangunea della Violenza e sia, quindi, una bestialità; che fare
abbia con l'incontinenza del limbo con l'ignavia.
I.
Non bisogna anzitutto avere di mira l'airesiV
de' Greci la quale è ben diversa dalla nostra Eresia; perché, se a
principio essa dinotò partito, setta, una scuola qualsiasi insomma,
ebbe poi un significato ora buono ora ritenuto cattivo solo col
principio dell'èra cristiana. Quella ch'oggi noi chiamiamo Eresia,
ha qualcosa dell'antica; d'essa — volevo dire — costituisce un
lato specifico, in quanto significa “opinione erronea intorno alla
fede ortodossa.”
Partendo da questo punto, vediamo che Dante intese parlare in modo
più generico. Egli dice:
Qui son gli eresiarche
Co' lor seguaci, d'ogni setta,
e, molto
Più che non credi, son le tombe carche.
Simile qui con simile è sepolto,
E i monimenti son più o
men caldi.»
E poi ch'alla man destra si fu volto....(IX:
127-32).
«Eresiarche,» dice lo Scartazzini, «(plur. ant. di
eresiarca, oggi eresiarchi), principi o capi
d'eresia. Cfr. Nannucci, Voci, 35 s.; Nomi 284 s.:
“Eresiarche vuol dire Principe di résia, et dicitur ab arcos
grece quod est princeps et heresis quod est Eresia,”
An. Fior.» E in que' capi d'eresia fa vedere d'avere intuito
qualcosa di complesso, l'espressione delle varie tendenze
centrifughe, che, in genere, potessero meritar il nome d'Eresia.
Né potrebbe esser altrimenti. Che, se il poeta dice che gli
eresiarchi sono condannati secondo la loro setta, questa non
s'ha a intendere in senso molto stretto in quanto —per esempio—
gli Albigesi ne costituiscano una e i Valdesi un'altra. No, questa
distinzione è ovvia; e un certo numero di siffatte sette Dante poté
intenderle benissimo condannate in un medesimo recinto. Si deve
invece vedervi qualcosa d'assai differente tra di esse: non c'è
forse una gran differenza tra la setta degli Epicurei vissuti avanti
il cristianesimo e i monofisiti vissuti dopo? Certo; e Dante, se
avesse voluto condannar tutt'e due come due consansanguinei, sarebbe
caduto, per lo meno, in uno stridente anacronismo.
Tra setta e setta, dunque, la differenza è sostanziale, pur
avendo riguardo alla Fede, ch'è l'oggetto dell'Eresia, la
quale significhi —piu o meno— errore.
*
Parlandosi di fede, Dante non trovò né poteva trovare in
Aristotele l'Eresia o un quissimile, e dové in questo caso supplire,
ricorrendo a S. Tommaso, che fu il propagatore e perfezionatore della
dottrina aristotelica e, al tempo di Dante, era il “Dottore delle
scuole.”
In S. Tommaso, Dante osservò che la fede e la fedeltà
hanno a contraria l'infedeltà.
“Se si guardi alla fedeltà in confronto alla fede,
ci sono diverse specie d'infedeltà e di numero determinato.
Consistendo infatti il peccato d'infedeltà nell'opporsi
alla fede, ciò può darsi in due modi: nell'opporsi alla fede
non ricevuta ancora, e s'ha l'infedeltà de' pagani o de' gentili; o
nell'opporsi alla fede cristiana ricevuta, ma in figura, e s'ha
l'infedeltà de' Giudei; o nell'opporsi alla fede cristiana ricevuta
nella stessa manifestazione della verità, e s'ha l'infedeltà
degli eretici. In generale, dunque, possono assegnarsi le tre
predette specie d'infeltà4.”
L'Eresia, come si vede, non è che un membro come un altro
d'uno stesso corpo, quella cioè «pertinens ad eos qui Christi fidem
profitentur, sed eius dogmata corrumpunt5.»
E voler d'un membro far un intero corpo sarebbe un volere imitar la
creazione d'Eva da una costola.
*
Dante un tal miracolo non si sforzò di farlo e si contentò di
calcar le orme di S. Tommaso, condannando l'infedeltà nelle sue
tre specie, una delle quali è l'Eresia propriamente detta.
«Poi ch'alla man destra si fu volto» può
benissimo voler dire che prima Dante aveva guardato la regione in
generale, tanto da poter dire che ci stavano gli Eresiarche, e
che poi cominciò a venir al particolare voltandosi dal lato
destro dove vide gli epicurei: «Suo cimitero da questa parte
hanno Con Epicuro tutti i suoi seguaci6.»
E li mise prima di tutti e a man destra, perché, credo anch'io,
“l'eresia epicurea tra le false credenze non è la peggiore
e, quindi, la più ragguardevole7.”
Abbiamo così l'infedeltà de' pagani o gentili.
Il poeta non dice d'aver oltrepassato la metà del cerchio ma col
dire che, per venire “sopra più crudele stipa8,”
dove trovò la tomba di papa Anastasio, dove’ lasciare il muro e,
camminando per un pezzo, andar «inver lo mezzo Per un sentiero che
ad una valle siede9,»
dice quasi chiaro che il mezzo cerchio lo passò di sicuro. Di là
trovò papa Anastasio, eretico —secondo Dante— e rappresentante
de' monofisiti con cui s'ha lì condannata l'infedeltà degli
eretici.
Manca, è vero, l'infedeltà de' Giudei. Ma essa può essere
compresa in quella degli eretici, dalla quale differisce in quanto
questa è opposizione alla verità già rivelata, quella invece alla
verità in figura; o forse si potrebbe trovar più in là, dove certo
Dante, che intero non visitò nessun cerchi, non andò.
Il certo intanto è che Dante nel cerchio sesto non condanno solo
l'eresia ma tutte le specie avversarie della fede, l'infedeltà cioè.
II.
Ma l'infedeltà ha della violenza? ha della bestialità?
Ricordiamoci che la bestialità (JhriothV)
in Aristotele costituisce la classe di coloro ne' quali
l'incontinenza è resa più grave da un certo grado d'intelletto e
ne' quali la malizia è resa meno grave da quell'incontinenza. “La
bestialità — dice S. Tommaso0
si può ridurre a malizia, dalla quale differisce in ciò che questa
s'oppone alla virtù e quella trasmoda circa la stessa materia.”
L'infedeltà del cerchio sesto non s'oppone veramente alle virtù
della fede, ma trasmoda, come fa rilevare la definizione stessa
dell'Eresia, ch'è chiamata “credenza o opinione
erronea,” ed è, quindi, cosa bestiale.
Ne' salmi ciò lo troviamo chiaro, quantunque non troviamo
l'infedeltà categorizzata come in S. Tommaso. Il s. 48, p. es., ci
dice: «Homo, cum in honore esset, non intellexit; comparatus est
iumentis insipientibus et similis factus est illis,» dove si
parla di chi misconosce Dio e confida solo nelle sue forze; e il s.
13, parlando degl'infedeli epicurei, dice: «Dixit insipiens in
corde suo: Non est Deus.»
E poi l'asserì Dante stesso, nel Convivio: «Per proponimento
dico che intra tutte le bestialitadi quella è stoltissima,
vilissima e dannosissima chi crede dopo questa vita altra vita
non essere.»
Si noti che Dante con quel crede non fa che far rilevare
meglio come l'infedeltà sia sempre una credenza o opinione; e una
tale eresia, dice il D'Ovidio, «è un'irrazionalità, e perciò è
bestiale1.»
Da questo si desume che l'infedeltà va di pari passo con la
violenza, come di pari passo va l'incontinenza negativa con quella
positiva. L'infedeltà è la violenza negativa, perché, confrontando
le sottospecie, si vede ch'essa è la violenza contro Dio guardata al
rovescio: Farinata è il rovescio di Capaneo, giacché questi contro
Dio rivolse un'azione positiva, la sfida, quegli invece non fece che
non credere in Dio e si rivolse solo alla cura della vita
terrena. In tutto ciò c'è del pazzesco, e per questo Aristotele
chiamò matta la bestialità; tant'è, anche noi oggi
riconosciamo che l'eresia è effetto d'uno squilibrio mentale.
*
Mi si permetta qui una breve digressione sul leone, che quasi
tutti i commentatori riconoscono simbolo della bestialità.
Prima di tutto, non ci si presenta esso come simbolo
dell'infedeltà? Il poeta dovette aver certamente presente il
passo di S. Pietro2,
il quale, esortando i suoi fedeli a conservar la fede, dice
loro di resistere con essa al demonio, che, come un leone,
sta sempre vigile a strapparla. Dinnanzi alla fede e al leone ci
troviamo così dinnanzi a due nemici, che tentano di distruggersi,
dinnanzi cioè alla Fede e all'In-fedeltà.
Qualcuno potrebbe arricciar il naso perché io equiparo la fede di
S. Pietro con quella degl'infedeli del cerchio VI; io però ho
provato — mi pare — che anche qui, come in S. Tommaso, si
tratta di fede in genere.
L'idea intanto che il leone sia simbolo dell'infedeltà è provata
dal fatto che anche a questa sono allegate la superbia e la violenza,
che sono allegate al leone come simbolo della bestialità. S. Tommaso
dice: «Infidelitas, secundum quod est peccatum, oritur ex
superbia; ex qua contiugit quod homo intellectum suum non
vult submittere regulis fidei3;»
e il Postillatore Cassinese dice che il leone è «Superbia, sive ira
sequela superbiae,» un'ira cioè ch'è violenza.
III.
Ma ritorno all’infedeltà e alle sue specie per insistervi e
dissipar certi dubbi.
Che nel cerchio sesto si tratti dell'Infedeltà, genere di più
specie, l'ha visto anche il Flamini4,
e una volta v'accenna anche il D'Ovidio5,
il quale però finisce col ridurre tutto alla semplice infidelitas
haereticorum. Dell'idea del Flamini, che considera l'infedeltà
come qualcosa di più ampio dell'eresia, io mi compiaccio come
d'un'approvazione alla mia tesi, che però non viene pregiudicata.
Perché, quand’egli dice: «Dante li ha riservati (il I cerchio e
il VI) ad una specie d'infermità morale, che Aristotele, vissuto
“dinnanzi il Cristianesimo”, non poteva conoscere: l'infedeltà;
collocando quella che procede da “difetto di fede” nel primo
cerchio dell'intero abisso (come peccato negativo meno grave degli
altri), e quella che procede da “contrarietà della fede”
(infidelitas secondum contrarietatem ad fidem), la quale si chiama
e r e s i a (haeresis) in quanto “importa
l'elezione”, nel cerchio VI, ch'è il primo de' compresi dentro le
mura della città di Dite, sede, appunto, della “malizia secondo
elezione”,» il Flamini allora guarda l'infedeltà da un punto
diverso dal mio. Io riconosco, sì, nel cerchio I l'Infedeltà, ma
nel senso d'un difetto non voluto e che nemmeno rasenta il codice
penale, tanto che, se i relegati nel Limbo avessero avuto il
battesimo, non sarebbero lì condannati: la loro infedeltà è d'alto
genere e d'altra specie di quella de' condannati nel cerchio VI, dove
la condanna non è per la colpa in sé, ma pe’ colpevoli dotati di
intelletto e volontà6.
Epicuro visse come Aristotele “dinnanzi al Cristianesimo”, eppure
è condannato — perché colpevole — nel cerchio VI, mentre
Aristotele nel I, perché non colpevole. Non è dunque il “difetto
di fede”, ma l'individuo che determina il cerchio.
Inoltre il Flamini, come tanti altri, esclude l'Eresia dalla
Bestialità e la mette per sé. Io, se non erro, ho provato che
l'Infedeltà, in tutte le sue sottospecie, è una delle specie, che
costituiscono la Bestialità.
Dal D'Ovidio la questione del cerchio sesto è solo accennata, non
delineata nettamente nei particolari, specie ne' più interessanti.
Egli riconosce condannata, dopo l'incontinenza e prima della malizia,
la bestialità (op. cit. 255-66), alla quale, facendo corrispondere
solo la violenza come “bestialità vera è propria” fa poi
corrispondere l'Eresia solo a “un primo grado di bestialità
teoretica, limitata all'opinione e alle parole”(pp.
273,255-66). Non ci vede, almeno così, l'Infedeltà tutta, a cui
solo accenna una volta (p.274) e nel senso propugnato dal Flamini,
cui par, quindi, voglia aderire. Al leone poi la bestialità, secondo
lui, s'attaglia in genere. E perché non in ispecie?
Tutto sommato, mi pare che si possa tener sicura la seconda
categoria così ordinata:
Bestialità
(genere)
Infedeltà (c. VI)
Violenza (c. VII)
(specie)
(specie)
1)de' pagani, 2)de' giudei,
1)contro il prossimo, 2)c. sé,
3)degli
eretici. 3)c. Dio, 4)c.
natura.
(differenze specifiche)
(differenze specifiche)
IV.
Ora, che cosa d'analogo può avere il cerchio VI col vestibolo
degli ignavi? Nulla affatto; perché — non se n'è accorto nemmeno
il Del Lungo, — se base della pretesa analogia fosse lo
«sconoscimento della divinità,» esso non potrebbe essere comune
agl'ignavi, agl'incontinenti del Limbo e agl'infedeli. Que’ del
Limbo non conobbero né avrebbero mai potuto conoscere Dio e, per
conseguenza, non commisero altra colpa che d'incontinenza negativa,
guidati come furono dalla sola legge naturale; e per questo la loro
non fu colpa: tant'è, non potendo entrar affatto nel regno de'
cieli, essi meritarono un luogo, che arieggia al loro Eliso.
Gl'infedeli invece, anche quelli che vissero prima del
Cristianesimo, colpevolmente non conobbero Dio, avendo misconosciuto
con le loro opere quello che anche l'intelletto suggeriva, capace
d'intuir Dio fino a un certo punto7.
Nell'atto intanto del misconoscere chi non fiuta una certa violenza,
negativa sì, me sempre violenza?
Comunque, gl'incontinenti del Limbo e gl'infedeli qualcosa fecero,
non rimasero mai ignavi, tanto che «lo profondo inferno gli
riceve..»
Negl'ignavi tutto questo non c'è, non potendosi il loro chiamar
disconoscimento della divinità. La triste lor condizione un giorno
fu di conoscer bene Dio, d'esser travolti dalla concupiscenza di
divenirgli simili, d'esser rimasti incoscienti tanto da restar
sospesi a vedere come sarebbe andata a finire a Lucifero, loro duce.
Se avessero per poco partecipato comecchessia al tentativo di questo,
sarebbero ora relegati con lui nel Cocito; se si fossero invece
tenuti con Dio sarebbero rimasti e confermati nell'Empiro. Ma non
furono fedeli né a Dio né a Dite, e perciò furono esclusi dal
regno di Dio e di Dite, al quale sono fedeli gl'infedeli del cerchio
sesto.
Così solo si spiega come gl'ignavi hanno un regno per sé.
*
Non mi dissimulo, prima di finire, una certa preoccupazione per un
argomento, che alcuni sostengono per la loro tesi, ma che può essere
fallace.
Come davanti al Limbo — essi dicono — passa l'Acheronte, che
lo separa dal vestibolo, così davanti al cerchio ereticale passa il
Flegetonte, che lo separa da' cerchi dell'incontinenza, di cui il
Limbo fa parte; e questa compassata divisione e circoscrizione fa del
vestibolo, del Limbo e del cerchio degli eretici una perfetta
trilogia, come che al primo manchi la carità, al secondo la fede, al
terzo la speranza. — Oh no! Manca — c'è bisogno di
ripeterlo? — a tutt'e tre la fede e, per conseguenza,
la speranza e la carità.
Il certo è che il vestibolo è la negazione di tutto il «profondo
inferno;» il Limbo è la negazione, il rovescio cioè della
sottostante incontinenza positiva, e il cerchio degli eretici è la
negazione o rovescio della sottostante violenza positiva. E Dante,
trovandosi nel vestibolo, dovette aver l'impressione d'esser in un
grand'atrio; e, trovandosi nel Limbo e nel cerchio sesto, si trovò
come in due vaste sale d'un grand'edifizio.
Questa sola è l'analogia fra le tre regioni.
Nulla osta per la
stampa tranne due osservazioni:
a) alla pag. 6
La responsabilità di Giuda, dichiarata dalla
scrittura, non si rileva bene, sebbene si tratti di un concetto
poetico.
b) alla pag. 15
La proposizione che comincia “E voler d'un
membro...” sarebbe satirica in bocca ad un acattolico
Catania
15 dic. '913
Can. Romeo Salvatore revisore delegato
Si permette la stampa Emilio Ferraris [...]