AccessibilitàAccessibilitàAccessibilità MappaMappa del sitoContattiContattiProgetto SISC

ANTOS
VINCENZO SCHILIRÒ
profilo
Dante Alighieri
Milano 1931


Al carissimo ANSELMO DI BELLA
legato allo Schilirò
da spirituale fraternità.


VINCENZO SCHILIRÒ accoglierà certamente questo volumetto di Antos sulla sua attività letteraria con tranquillo compiacimento, poiché vi troverà un giudizio che è dato con serena obiettività, con intelligenza ed amore.

Egli ha studiato, lavorato, prodotto, pubblicato senza cercare rumori intorno a sé, senza pretese di nome e di fama; pago soltanto dell'intima soddisfazione che gli è venuta dai libri e dallo studio, del suo amore per l'arte, del conforto e del riposo che il suo pensiero ha trovato comunicandosi e partecipandosi agli altri, ai giovani specialmente.

Se oggi Vincenzo Schilirò sente che è tirato quasi a forza fuori del silenzio in cui volontariamente è stato solito chiudersi, deve compiacersi, non fosse altro per questo, perché il solo fine che all'arte sua ha assegnato, di giovamento morale e intellettuale, è stato raggiunto: le sue opere, le sue pubblicazioni sono già penetrate nel pubblico, il suo pensiero è posto a confronto col pensiero degli altri, la sua arte ha preso il suo posto nel dominio dell'arte.

Di altro genere è il nostro compiacimento, nostro, cioè degli amici di Vincenzo Schilirò, in particolare di quelli che gli siamo compagni della giovinezza fino ad oggi, e lo abbiamo visto primeggiare nella scuola e poi in ogni attività pubblica sia sociale sia culturale, lo conosciamo nel suo animo, nel suo pensiero, nelle sue aspirazioni, nei travagli anche del suo spirito, e sappiamo quello che egli potrebbe scrivere e non scrive, quello che egli ha scritto e non pubblica, quello che sta preparando e che supererà dal lato artistico quello che ha già pubblicato.

Il nostro compiacimento è orgoglio di patria. La nostra patria che nei tempi passati fu madre di eletti ingegni, di grandi pensatori e geniali scrittori, oggi può ritornare superba di questo suo figlio, e deve sperare che da questo suo figlio riceverà nuovamente gran nome. Poiché Vincenzo Schilirò, se la malferma salute non lo abbandona del tutto, è capace di raggiungere altre vette, di porsi, quando vincerà la sua ritrosia e finirà e pubblicherà i lavori ai quali si è accinto, fra i maggiori pensatori e prosatori dell'età nostra.

All'amico comune Antos, che per l'affinità spirituale che fra noi passa ha voluto dedicarmi questo suo studio, sono debitore di gratitudine, non solo per questo suo pensiero gentile a mio riguardo, ma anche e principalmente perché ha compiuto Egli un dovere nostro, perché si è occupato di una nostra gloria, ha svegliato una nostra ambizione.

Tutti della mia terra gli dobbiamo essere grati. Egli non ostante le sofferenze del suo fisico e il lavoro del suo nobile ministero, ha trovato il tempo di leggere e meditare le opere di Vincenzo Schilirò, e ne ha riassunto il pensiero e l'arte con una sobrietà e una chiarezza ammirevoli.

Nel suo lavoro Antos è stato guidato dalla sua passione per gli studi letterari, ma certo pure dal suo affetto per l'amico Vincenzo Schilirò, primo e caro amico fin dagli anni giovanili; guidato dal desiderio che la grandezza e la genialità dell'amico sia resa più pubblica, sia nota anche a quelli che si ostinano a sconoscerla.

Cosicché il suo studio i critico animato da questa passione e da questo affetto è riuscito un pregevole lavoro letterario, e l'autore vi rivela una profonda conoscenza dei problemi estetici trattati dallo Schilirò, gusto artistico e sicura padronanza della lingua.

Un altro solitario che lenisce le sue sofferenze fisiche coi libri e con lo studio.

Anselmo Di bella

Milano, 15 maggio 1931


PROEMIO

La gran penuria di scrittori, che la letteratura soffre tra il nostro clero, par si voglia compensare in questa figura di pensatore e d'artista, la quale s'eleva ben alta all'ammirazione di tutti. Vincenzo Schilirò è ormai conosciutissimo e stimato da non pochi tra i migliori rappresentanti della letteratura italiana: e, come maestro, ha intorno a sé un buon numero di discepoli che gli fanno onore.

La Grande Enciclopedia Popolare Sonzogno, a pag. 323 del volume XVIII, in succinto ne traccia così la biografia: “Critico, cultore di estetica e poeta italiano, n. a Bronte nel 1883. Ha insegnato per qualche decennio nel liceo del Real Collegio Capizzi di Bronte. Fra le molte sue pubblicazioni vanno segnalate: La credenza carducciana; Il romanticismo e gli “amici pedanti”; I motivi estetici dell'arte d'annunziana; Appunti di estetica; ecc. Recenti e lodati lavori di poesia sono il poemetto drammatico Santo Francesco e il racconto lirico Il seminatore che non miete”.

Eppure è caso curioso, specie oggi che facilmente chi sa rabberciar qualche novella è messo in mostra, e si parla di tutto, anche delle cose più insignificanti è nonostante i periodici che all'occasione si sono occupati di qualche suo lavoro, non siamo stati avari di lodi e di compiacimento, i suoi libri tuttavia non godono quella notorietà che per il loro valore meriterebbero. Gli è che lo Schilirò è esempio non troppo comune nella repubblica letteraria è non ha mai sentito il bisogno di trovare l'editore reclamista che sa lanciare il libro a decine di migliaia di copie.

Carattere fiero, che non conosce anticamere, scrive per sé, per un bisogno infrenabile del suo spirito, e pubblica, in pochi esemplari, per gli amici. Per i lettori anonimi e sconosciuti mostra un'assoluta indifferenza. Ha amato, per altro, lavorare in mezzo ai suoi alunni e per essi ha curato un vasto repertorio drammatico. Anche quando tien fisso lo sguardo all'arte, ha per fine l'insegnamento, e, se questo è raggiunto, è pago.

Ma è giusto che le sue opere siano così diffuse come egli è conosciuto, perché da tale diffusione molti trarrebbero profitto. Ed io, che passai accanto a lui i migliori anni della gioventù studiosa e ansiosa verso miraggi che sono oggi, in parte, realtà, e poi finora sono stato più o meno vicino e quindi partecipe delle sue ansie, del suo lavoro e delle sue gioie interiori, ho voluto assumermi il compito di farlo conoscere a chi non lo conosce ancora e, s'è possibile, farlo conoscere meglio a chi lo conosce appena o male. Forse, è vero, non ci riuscirò: ma sarà molto per me se arriverò almeno a far sorgere il desiderio di prendere e leggere i libri dello Schilirò.

ATTIVITÀ GIOVANILE

Vedremo, in seguito, nelle pagine dello Schilirò uno spirito molto combattivo, ma di quella combattività che tanto più è temibile quanto più è calma: e lo vedremo fin dal suo primo manifestarsi al pubblico. Questo subito apparire meraviglierà. Ma non farà nessun'impressione a chi lo ha visto o anche assistito nei primi anni della sua giovinezza e poi nel periodo turbolento della politica che corse dal 1907 al 1914.

Egli, affascinato dal movimento democristiano che, in aperta antitesi alle concezioni liberale e socialista, mirava a sollevare le classi meno abbienti, iniziò la sua attività con opere di evidente pubblico vantaggio.

Fin dal 1907, oltre a lavorare nell'oratorio giovanile e nell'annesso teatrino, mise su, insieme ad altri amici, lo Stabilimento Tipografico Sociale, con lo scopo d'agevolare la propaganda democristiana: costituì la Cassa Agraria, il più importante istituto di credito della città, che diresse per molti anni ed arricchì di uffici e stabile proprio: portò il suo contributo all'organizzazione degli agricoltori ed al circolo giovanile di cultura: e fece sorgere il primo periodico che vedesse la luce in Bronte, Il Propagandista, mirante a risvegliare la coscienza del popolo dinanzi alla grave questione sociale.

Sennonché nel settembre del 1907 Pio X, condannando il modernismo, ordinava tutte quelle misure di precauzione e di vigilanza che, applicate con eccesso di zelo, degenerarono in parecchi inconvenienti. Fu a causa di questi che lo Schilirò, sospettato di modernismo, limitò la sua attività pubblica e fece cessare le pubblicazioni al Propagandista, al quale dopo una pausa fece succedere, con fisionomia di periodico politico-ammistrativo locale, il quindicinale Domani! che visse battagliero fino alla nostra entrata nella guerra mondiale.

Abbiamo fatto questi accenni, che potrebbero sembrare di scarsa importanza, tanto più che riguardano un periodo addirittura tramontato, perché contribuiscono a rivelare l'uomo e il formarsi dello scrittore. Il Domani! infatti in mano dello Schilirò fu un'arma temibile nella lotta a viso aperto: e, indipendentemente dai risultati pratici che ottenne nel campo politico e amministrativo della provincia, esso a tanta distanza di tempo ci è tuttora caro, e noi lo conserviamo gelosamente, perché fu anche la nostra piccola palestra artistica. E l'amiamo soprattutto per quest'ultimo motivo.

In tanto infuriar di partiti e di passioni, quegli che proprio non si scompose affatto fu lo Schilirò, il quale seppe star a capo del movimento non solo con chiarezza di principii e fermezza di propositi, ma con quella amabile serenità che è propria di chi sa fare il suo dovere e sa aspettarsi le amare delusioni. Quest'atteggiamento lo fece scrittore simpatico, amabile poi in mezzo alla brigata degli amici che lo circondava: una di quelle brigate che si formano assai naturalmente tra i giovani sinceri e intelligenti e rappresentano, negli anni maturi, uno dei migliori ricordi.

Egli così, quasi senz'avvedersene, mentre gli avversari fremevano, si trovò in quelle competizioni politiche come uno non avesse altro scopo che divertirsi, facendo, senza passione, esercitazioni d'arte.

Chi conserva la collezione del periodico può facilmente vedere questo, attraverso gli articoli lindi e semplici, dove le notizie politiche s'intessono alle idee sociali con un sobrietà rarissima e un lepòre che, alle volte, raggiunge il tono del più fine humour. Lo stesso si può rilevare dal giornale umoristico U Trabanti, uscito fino al quarto numero nel periodo che più infuriava la lotta politica del '13, e redatto in un miscuglio di dialetti della provincia, non escluso il latino maccheronico. In esso l'amara ironia del popolo brontese, che spesso è beffa, e la contesa di parte si vestono, per opera dello Schilirò che scrive o dirige, d'una forma originale e artistica che rende piacevole la letteratura del foglio anche a chi non è interessato alla lotta. La qual cosa dà a vedere le doti e le attitudini dello Schilirò come scrittore e come uomo d'azione.

S'ebbe poi subito a rimpiangere la fine del giornaletto, che moltissimo fece divertire: ma bisogna riconoscere ch'esso non aveva più ragione di vivere. Così pure, alla vigilia della nostra guerra, cessò le sue pubblicazioni il Domani!, dopo aver combattuto una nobile battaglia a favore dell'indipendenza e dell'integrità amministrativa del R. Collegio Capizzi.

Possiamo dire che con la cessazione di quei periodici lo Schilirò s'allontana definitivamente dalle competizioni politiche e dall'attività sociale, per darsi tutto allo studio, alla scuola e all'arte.

LE PRIME OPERE

Lo Schilirò fece conoscere la sua preparazione letteraria agli esami di laurea, nel giugno del 1912, quando, senza aver chiesto suggerimenti e giudizi a nessun professore dell'Ateneo di Catania, presentò come tesi La credenza carducciana, che fu una rivelazione e uno stupore.

Il prof. Paolo Savj-Lopez, relatore di essa e critico incontentabile, dichiarò che mai da un esordiente aveva visto presentare una tesi così perfetta nella forma e nella sostanza. Ma siccome lo Schilirò, che non aveva frequentato i corsi della facoltà, era poco o nulla conosciuto dai professori dell'Ateneo e qualcuno di costoro, mosso dal settarismo allora di moda, avanzò il sospetto che il lavoro, nonché farina del candidato, fosse una manovra del clericalismo invadente che mirava a rivendicare la credenza del Carducci ateo, la Commissione richiese dallo Schilirò un nuovo saggio scritto. Fu così che egli nell'ottobre dello stesso anno presentò stampato, oltre che La credenza carduccianae suo valore, un secondo lavoro che completava il primo, cioè il Romanticismo e gli “amici pedanti”, la discussione del quale fu per lui un successo e viva soddisfazione pel Savj-Lopez, che invitò ripetutamente lo Schilirò a prender contatto col suo cenacolo letterario di Firenze.

Le due opere, profondamente diverse per chi le guardi con una certa superficialità, sono intimamente connesse, di maniera che l'una integra l'altra.

Nella Credenza carducciana l'Autore messosi con sicurezza di vedute tra le due file opposte è di chi fa il Carducci affatto e di chi lo fa un convertito, secondo gl'interessi dei polemisti è, analizza chiaro e preciso le opere del Poeta e conclude che il Carducci “quando declamò contro Cristo, fu per odio ai preti, e quando di Cristo pensò libero e sciolto, fu sentimento intimo: che di Cristo non ammise la divinità, ma s'inchinò al gran martire umano: e che a Dio volle credere sempre più” (pag.126). E benché il libro studi soltanto il lato spirituale del Poeta è e forse a motivo di ciò è illumina anche il carattere sincero, libero e combattivo di lui, quale si rivela nell'arte e nella vita.

E' proprio in questo che La credenza carducciana si connette a Il Romanticismo e gli “amici pedanti”.

Lasciate le pagine fluenti della prima opera, che ci facevano assistere allo svolgimento drammatico della vita spirituale del Carducci, nella seconda siamo portati ad assistere a quel periodo di formazione letteraria di lui, che corse dal '56 al '71. Ci troviamo perciò davanti ad un'opera puramente storica. Ma lo Schilirò che, nella Credenza ci aveva fatto vedere che fattore principale dell'arte e dell'operosità del Carducci è l'amore libero, battagliero e insofferente di qualsiasi giogo, qui ritorna a mostrarcelo con lo stesso animo, nell'atto di pontificare in mezzo agli amici e di scagliare fulmini contro i romantici. Che lieta e promettente brigata quella dei quattro amici pedanti!. E' una di quelle brigate che, nella vita, capitano sempre e in cui in po’ tutti ci si trova: e mi fa essa pensare a quella del Domani! che riuniva lo Schilirò e i suoi amici nella fede e nel culto d'una bella idea. Forse sta qui il segreto della simpatia che suscita questa seconda opera sul Carducci.

La quale poi, più che essere una monografia che rischiara un periodo dell'attività letteraria carducciana, è un utile contributo allo studio sul romanticismo. Chi con esattezza l'ha mai saputo definire? Ecco qui uno è a mio parere è il quale, valutando le idee e le battaglie sostenute dal Carducci, riesce a mostrare che cosa sia stato il romanticismo per costui e quale influsso su di lui e sopra i suoi contemporanei abbia esercitato.

Per il Carducci il romanticismo fu, in sostanza, come pel Manzoni, “un ragionevole ritorno agli esemplari indigeni, di vigoria spontanea, ma insieme d'arte ingegnosa per l'accordo tra il classico e il neolatino” (p.12): cosicché egli più tardi, moderando la lotta scapigliata degli altri classicisti e guardando al romanticismo con quel fine intuito con cui aveva guardato il Manzoni, riuscì non meno romantico che classico, così da potere entrare nella considerazione del Mazzini: “I veri Romantici non sono ne boreali ne scozzesi: sono italiani, come Dante quando fondava una letteratura a cui non mancava di romantico che il nome” (ib). Pertanto egli cessa di odiare le lingue estere, anzi comincia ad amarne i capolavori fino a tradurre dal Henie e a comporre una bellissima ode a Victor Hugo: e in Rime Nuove è il libro meno stimato dai classicisti impenitenti è impreca sì alla luna, immagine del romanticismo sentimentale e flaccido, ma definisce per innalzarle uno dei canti più teneri (Vendette della luna) in una forma che non potrebbe essere più romanticamente perfetta.

Tutto questo periodo ricco di battaglia e fecondo di nobili sensi vediamo svolgersi sotto i nostri occhi leggendo l'aureo volumetto dello Schilirò. Il quale, se si guardi alla storia della brigata dei pedanti, è non sembri irriverente l'accostamento è il gemello de Le risorse di San Miniato. Il discepolo, senza accorgersene, ha un po’ preso l'arte al Maestro e l'ha usata con quella naturale progressiva modernità di lingua di chi ha ormai un patrimonio letterario tutto suo e non è asservito a nessuno.

Altri ha tentato il medesimo lavoro o perché non ha conosciuto la monografia dello Schilirò o perché ha creduto di poter fare di meglio: ma, ch'io sappia, essa resta il lavoro più conclusivo del battagliero periodo carducciano.

Forse potrebbe venir fuori qualche lettera ancora inedita del Poeta o dei suoi amici per meglio corroborarne le prove: ma la storia è li sistemata e vagliata così che la letteratura carducciana non può più farne a meno1. E noi questi primi passi conosciamo, attraverso pagine linde, armoniose e compatte, l'attitudine critica dello Schilirò, il quale, se segue il metodo storico già caro al Carducci, lo vivifica d'uno spiccato senso d'arte, di cui del resto nel 1910 aveva dato prova con una traduzione dell'Arte poetica di Orazio e nel 1912 col volumetto di versi Primavera triste.

TENTATIVI D'ARTE

Vorremmo dire dell'artista giovane tutto il bene che abbiamo detto del critico giovane: ma, data la diversità dei due campi, ci tocca far delle riserve, che si devono piuttosto al tempo immaturo in cui lo Schilirò scrisse i primi versi.

Infatti i due saggi critici che abbiamo osservato son opera di quel periodo decisivo in cui egli ha già trovato la sua via e la sua forma e quindi può con precisione far vedere la competenza cui è arrivato per precocità d'ingegno e di cultura: ma i versi si sono andati raccogliendo, adagio adagio, negli anni precedenti, ancora immaturi.

Nella brevissima prefazione de L'arte poetica l'autore ci dice: “Attesi alla presente traduzione sui diciott'anni, quando cominciai, in iscuola, a gustare L'arte poetica. Ed ora la pubblico, non per pretensione letteraria, ma perché rileggendola m'è sembrata attenersi scrupolosamente al testo.”

Se è in versi, bisogna attribuirlo ad un puro desiderio giovanile di esercitazione metrica.

A dir la verità, pur trattandosi d'opera giovanile, qui ci troviamo dinanzi a un lavoro pressoché perfetto nel suo genere: poiché la scrupolosa fedeltà al testo è così contemperata all'intelligenza della tesi del Poeta e alla scioltezza e purezza del verso, che vien proprio da dubitare se si tratti d'un lavoro originale anziché d'una traduzione.

Si leggano per esempio, i primi 14 versi che formano come il proemio:

Se volesse un pittore a capo umano
un collo unire equino e pinger penne
di svariato color su varie membra
da qualunque animale raccozzate,
in modo che una donna in viso bella
finisca in pesce sconciamente turpe,
e foste, amici, a visitar chiamati,
vi trattereste forse da le risa?
Credetemi, Pisoni, a tale quadro
somiglierà lo scritto, le cui strane
immagini saran rappresentate
come gli strani sogni d'un infermo,
in modo che ne il piede ne la testa
si riferisca ad una forma sola.

Codesto garbo e levigatezza di stile è dote naturale allo Schilirò, cui l'abbiamo visto spiegare a dovizia nelle due critiche carducciane, e gli è naturale anche nel verso, quantunque questo non raggiunge ancora la forza di costruire un lavoro più esteso. Apriamo Primavera triste e ve li troveremo dovunque.

Questo volumetto d'appena 130 pagine comprendente poesie di varia ispirazione, anche occasionale, di quella cioè che alle volte nuoce alla vera poesia. Ma noi giudichiamo senza preconcetti. L'Autore nella prefazione ci dice: “Fra il rispetto, che nutro sincero e quasi geloso per l'arte, e quella compiacenza indulgente che, nel giudicare i lavori della giovinezza, ascolta con preferenza la voce del cuore, ha vinto la seconda... Ma, nel dichiararmi vinto, devo pur dire che la mia perplessità nel congedare i manoscritti alla stampa non è stata lieve. Me lo confermano la facilità con cui, rileggendo di quando in quando questi versi, son venuto decimandoli, e la convinzione salda che, indugiando qualche anno ancora, li avrei ridotto di vantaggio... Mi conforta per altro il pensare che, se il cuore è stato indelicato verso l'arte, non ha patrocinato la causa di sentimenti indegni”.

Confessioni preziose, queste, che ci rivelano la storia umile e, nello stesso tempo, semplice e sincera di questi versi. C'è, è vero, alle volte non un'ispirazione vera e propria, ma una tesi da sostenere, come in certi canti moraleggianti, che, atteggiati a troppo pessimismo o ad amara satira o suggeriti dalle vicende politiche, potevano egualmente essere scritti in prosa, come è stato osservato pel Giusti. Ma ci sono dei canti che rivelano soltanto il mondo interiore del poeta e, quantunque questo mondo non s'esprima in tutta la sua vitalità, pure ne mostrano la natura e ne promettono la manifestazione compiuta. Simili canti non sono pochi; e io vorrei riprodurli tutti se non me lo vietasse il modesto compito propostomi; ma ne cito i titoli: Primulae, La vigilia de l'Ascensione, Poesia e prosa, A mezzanotte, Pazza?, Drammi occulti, Sposi novelli che emigrano, Mosche di novembre, Per sempre, Il sacrificio, Desto compassione.

In questi canti, siano pure semplicemente abbozzati, noi troviamo un piccolo mondo, dove le visioni del poeta sono vive e palpitanti della stessa vita che le cose hanno nel gran mondo; e vediamo il poeta lasciarsi da esse dominare, senza artifici o esagerazioni. Ecco la seconda delle poesie citate, tanto per leggerne una delle più brevi:

LA VIGILIA DE L'ASCENSIONE

E' mezzanotte. Le fiammate s'alzano,
serpeggiano scherzose fra i tuguri
ammonticchiati ed un bagliore fumido
proiettano sui muri.

Chiassosi crocchi aggirarsi e tumultuano
attorno ai fuochi. Sbucan da le vie
le fanciulle e, con voce incerta e tremula,
cantan le litanie.

Ne la grave notturna quiete, tremano
quell'argentine accalorate voci:
tremano e poi si sperdono, per l'ampia
oscurità, veloci;

e l'eco gaia, penetrante, fondesi
con altre note, anch'esse penetranti...
Intanto verso il ciel stellato guizzano
le fiamme crepitanti.

Se non ce lo dicesse l'Autore stesso, lo vedremmo ugualmente noi che in questi canti c'è ancora il giovane che s'inizia al gran mistero della poesia, e vedremmo pure che vi si nota un non so qual sentore d'imitazione; ma è anche chiaro che questo giovane ha in petto qualche cosa che lo anima e lo fa palpitare: la poesia. Cosicché noi usciamo dalla lettura di questo volumetto con la sicura speranza di aprirne fra breve un altro che ci dia il poeta.

IL SAGGIO SUL D'ANNUNZIO

Da tutto quello che siam venuti osservando emerge chiaro che lo Schilirò, scrittore, possiede fuse in perfetta armonia le due qualità che è come egli dirà in Appunti d'Estetica è son necessarie al vero critico d'arte: di filosofo e d'artista. E' vero ch'egli ama, per lo più, presentarsi da critico modesto: ma, anche quando fa delle semplici disamine letterarie, rivela in modo manifesto il suo temperamento d'artista.

Dopo le pubblicazioni del 1912 lo vediamo raccogliersi e dar poi alle stampe nel '18, I motivi estetici dell'arte d'annunziana: un bel volume di 268 pagine, edito dal cav. N. Giannotta. Il libro, malgrado l'edizione non avesse fini commerciali e non potesse quindi avere larga diffusione, ebbe realmente le accoglienze che meritava: e fra i tanti che lo lodarono e si felicitarono con l'autore ricordiamo Benedetto Croce, al quale parvero molto esatti i giudizi che lo Schilirò dà sul D'Annunzio e su ciò che la sua arte realizza.

Il nuovo lavoro veniva a compier bene le promesse lusinghiere dei due saggi carducciani. Poiché qui il critico si presenta non solo a giudicar la vasta operosità d'uno dei nostri poeti più fecondi, ma anche a ricercare e vagliare in forma artistica i motivi ideali che guidano le opere del poeta medesimo. Egli è ormai sicuro padrone di sé stesso: ha un patrimonio estetico tutto suo: ha una conoscenza vastissima nel campo della letteratura; e gli è tanto familiare la vasta opera d'annunziana che riesce a guardarla nel suo complesso, e sa seguirne le fasi, i criteri e le preziosità dell'elaborazione estetica. Si sente subito lo scrittore della Credenza carducciana e del Romanticismo; ma come più ricco d'esperienze, di modi e di suoni! Qualunque pagina apriamo, troviamo cose dette come non spesso ci occorre sentirle dire. Si pigli per esempio il Cap.XIII, La musicalità dell'arte e si vedrà la maestria dell'Autore nella trattazione del soggetto e nel modo con cui ne parla.

Ma, idealmente, il libro unito e compatto non è. Una parte, la prima tratta i più fondamentali problemi estetici, a cui dà una soluzione rispondente alle vedute dell'autore: l'altra vorrebbe essere l'esposizione delle teoriche d'annunziane (in verità al D'Annunzio, temperamento antifilosofo per eccellenza, come lo stesso Schilirò avverte, manca un vero sistema estetico) e la critica di tali teoriche, alla stregua dei principi discussi all'inizio. L'una e l'altra parte cercano di fondersi in un tutto organico, ma non è così che non si possano facilmente separare. Tanto è vero che la prima parte è stata dall'autore nuovamente elaborata e presentata sotto il titolo Appunti d'Estetica; e la seconda, come critica delle varie produzioni d'annunziane, starebbe meglio a parte: lavoro che lo Schilirò non è forse alieno del farne, non foss'altro per aggiornare lo studio delle opere del poeta.

Comunque, è interessante qui rilevare quale sia l'arte del D'Annunzio secondo il concetto dello Schilirò, che, a mio parere, seppe guardare a tutta la critica d'annunziana di più d'un ventennio e, guidato ormai dalle lunghe esperienze del suo gusto finissimo, superarla.

Il D'Annunzio, come abbiamo accennato, una teorica sua dell'arte non l'ha, ma subisce molte influenze esterne. Nelle liriche giovanile, nelle novelle e nel romanzo “ingenuo” Il Piacere “attraverso le reminiscenze letterarie si rivelano con sincerità profonda la genialità pittorica e la sensualità violenta del Poeta”. Dopo “cominciamo a notare le prime preoccupazioni teoriche. Pel D'Annunzio l'arte comincia ad essere un'esercitazione formale, un gioco da dilettante... Spirito essenzialmente formale, più che il pensiero ama l'espressione”. Il che “non è della parola come espressione viva: è la divinizzazione del suono squisitamente ricercato. Lo confesserà più tardi, condannando questo malsano artificio de' suoni”. (Cap. XI, pp.95-7).

Dal dilettantismo formale passa al psichico. “Il D'Annunzio, stanco del malsano artificio de' suoni, vorrebbe volgersi alla vita e alla realtà, cercare un contenuto, animare d'un afflato vitale le sue opere artistiche... Pensa che bisogna studiare gli uomini e le cose direttamente, senza trasposizione alcuna. Ma è evidente che un tal metodo rimane pura velleità obbiettivistica. L'assenza, nel Poeta, d'un profondo pensiero etico s'oppone all'organica e vitale animazione degli ambienti studiati, per dar luogo al dilettantismo psichico. E, per la ragione che un'opera d'arte non può sorgere sopra un piano ragionato, il D'annunzio, giovandosi di dati estranei alla sua vita fantastica, non fa che costruire. Dipende da ciò la frammentarietà artistica che caratterizza le opere d'annunziane... La creazione della favola bella, sognata nel Fuoco, è ancora un sogno” (98-9).

Ma il poeta fa un passo avanti, perché incomincia a sentire che la suprema bellezza artistica risiede nell'espressione, e si sforza di trovare quell'espressione che “sembrasse non imitare ma continuare la Natura”. Quest'espressione ideale dovrebbe essere il Trionfo della Morte. “Praticamente però il D'Annunzio non ha dato, col Trionfo della Morte, l'ideale opera artistica per eccellenza...Egli è riuscito, come sempre e forse meno che altrove, l'artefice inimitabile di staccati quadri plastici e sinfonici”. Solo “quando il Poeta ha dinanzi agli occhi dello spirito una visione degna di serio esercizio artistico, dimentica il ben definito preconcetto e cessano la ricercatezza, la leziosagine, la prolissità analitica e le smorfie filosofiche. Il pellegrinaggio di Casalbordino e la scena del fanciullo annegato, che bisogna contare fra le migliori pagine del libro, sono la più bella e la più categorica affermazione del temperamento estetico d'annunziano. Eppure non devono nulla alla preannunziata tecnica! (pp.101-2)”.

Il D'Annunzio sente, finalmente, il bisogno di riposare in una definitiva concezione della vita, che sia fonte di sincerità artistica. Ma anche ora non fa che ricorrere all'aiuto altrui: alla dottrina nietzschiana. Ed è utile dire che neppure nella concezione del Superuomo può trovare sincerità artistica, perché la filosofia nietzschiana ne isterilisce la fonte col violentare i sentimenti umani e capovolgere i valori della vita. Se ne avvide quando di fronte all'eccidio europeo denunziò ogni teoria che sapesse di tedesco e cercò di mettere la sua arte a servizio dei massimi valori umani. Ma purtroppo il Poeta, nonostante la buona volontà d'essere sinceramente italiano in mezzo agli italiani, e malgrado il cataclisma europeo l'abbia scosso così da convertirlo alle “semplici antiche ideologie” e farlo vibrare di poesia nazionale, conserva ancora “quella preziosità aristocratica che è ormai sua natura e lo tiene lontano dalla maggioranza del popolo”.

Ho voluto riassumere in breve la trama del lavoro dello Schilirò per far vedere quali siano gl'indirizzi è o principi estetici, come altri li chiama è del D'Annunzio, indirizzi non sistemati razionalmente, e come lo Schilirò sia riuscito a vagliare, attraverso un sistema organico e consacrato, i motivi ispiratori dell'arte d'annunziana.

Non mi dissimulo che il maggior valore del libro sta proprio in quest'ultimo punto. Lo Schilirò, pur di fronte a due oggetti quasi inconciliabili, passa dall'uno all'altro con snellenza e disinvoltura, come se si trattasse d'un oggetto solo: anzi la padronanza che mostra nel ricordare l'opera d'annunziana fa sì che si colori meglio la parte teoretica. Di questa, che più tardi, con nostra sorpresa, egli rifonderà in Appunti d'Estetica, arricchendola di nuovi pregi, ci occuperemo appresso.

INTERMEZZO

Qui una stasi. Apparente però: perché lo Schilirò, il quale par che non possa lavorare a un opera puramente dottrinale se non intramezzandola con una di fantasia o che abbia un po’ dell'una e dell'altra, non sta mai inerte.

Accettato, per amore di campanile, l'insegnamento nel R. Collegio Capizzi, non limitò la sua attività alle sole lezioni scolastiche, ma curò delle pubblicazioni modeste sì ma grandemente utili agli alunni, delle quali faremo presto cenno, e mise su un'affiatata filodrammatica, che per diversi anni regalò agli alunni dell'Istituto e alla cittadinanza molte serate divertenti.

Per essa lo Schilirò compose o cavò da romanzi o ridusse delle opportune composizioni drammatiche, tra cui ricordo: Quo Vadis? Andrea Cornelis, Il Maestro, Sperduti, Il colpevole, I tre gobbi, I promessi sposi, Il matto burlone. Di questi lavori non ha dato alle stampe che il Colpevole e Il matto burlone, scherzo comico in un atto, musicato dal M. C. Sangiorgio.

Il Colpevole, in tre atti, rimonta al '19. Non è un dramma originale, perché, come l'autore avverte, esso venne ricavato dal romanzo Le coupable di Francesco Coppèe: ma ricavato con molta libertà: onde il lavoro ha uno spiccato sapore d'originalità, anche perché la tesi del romanzo, cioè il problema della ricerca della paternità, è stata una tesi cara allo Schilirò.

L'opera, sebbene esigua, mostra l'autore padrone non solo della tecnica del dramma, ma anche dello sviluppo spirituale di esso, cui, senza tale padronanza, nuocerebbe non poco l'importazione a tesi.

Il dramma piacque molto, e in Bronte è stato più volte rappresentato con successo. Forse a ciò contribuisce il fatto che taluni provvedimenti legislativi rispondono a un bisogno vero dell'umana coscienza, e ben s'apponeva lo Schilirò scorgendo nella tesi del lavoro “la più bella lancia spezzata a favore d'una legge che tutti gli onesti invocano: la ricerca della paternità”.

Altra fatica compiuta per gli alunni del liceo Capizzi fu la compilazione delle Note dantesche, che riescono di molto profitto agli studenti nella loro preparazione alla licenza liceale. L'opuscolo è del '20. L'ordine, la chiarezza e la semplicità vi sono così grandi che s'è sentito il bisogno di farne una seconda edizione coi tipi di Crescenzio Galàtola: anzi, quello che più sorprende a questo riguardo è il fatto che molti studenti, in mezzo a tanti studi e quadri sinottici della Divina Commedia, scelgono questo dello Schilirò e, quando per economia non lo comprano, hanno la pazienza di copiarselo. Questa preferenza indica chiaramente la bontà del lavoro.

Si deve anche allo Schilirò l'origine di Nova Juventus, bollettino mensile del R. Collegio Capizzi, che è notiziario dell'istituto, palestra spirituale per gli alunni e voce cara che porta l'eco alle famiglie dei convittori. Cominciò ad essere pubblicata nel marzo del 1920. Essa porta il nome della Squadra Sportiva del Capizzi e dell'inno dello stesso Istituto, composto dallo Schilirò nel suddetto anno e musicato dal M. G. Torresi.

Ne l'ora che Italia,
con stigme di guerra,
le braccia omai libere
ai figli disserra;
ne l'ora fatidica
che nuovi destini
risplendono ai popoli
de' regni latini,
gli sguardi s'affissano
in te, gioventù!

De l'alma tua patria,
spossata e ferita,
pe’ cuori che piangono
la quiete fuggita,
tu sola è ricordalo è
sei 'l fiore che adorna
il sangue che circola,
la speme che torna:
e ha fede l'Italia
in te, gioventù.

E mentre che torbidi
si fan gli orizzonti,
e il tuono già brontola
nel piano e sui monti
oscure minaccie
di guerra civile,
tu rompi le tenebre,
o raggio gentile,
e mostri alla patria
un santo avvenir.

Su, compì il miracolo,
o nuovo germoglio
d'un popolo libero
e gioia ed orgoglio!
In mano la fiaccola
del giusto e del vero,
con l'abile braccio
col sano pensiero
prepara alla patria
un grande avvenir!

Senza risparmio di fatica lo Schilirò le fornì articoli per diverse rubriche. Al nostro fine segnaliamo soltanto gli articoli critici, che mirano a illuminare gli studenti intorno al movimento letterario della nazione. Essi sono svariati e costituiscono poi, nel '21, il bel volumetto intitolato Bricicche letterarie, che chiude la prima serie dei saggi critici pubblicati dal periodico dal marzo '20 al giugno '21.

Riprese le sue pubblicazioni, Nova Juventus continua a recar saggi dello Schilirò, che, al solito, non legati da nessun rapporto, rivelano l'instancabile attività di uno che segue il movimento letterario giorno per giorno. A questo modo avremo un giorno, in più raccolte, una specie di galleria, dove si potranno ammirare e gustare tante cose: una miscellanea insomma, a cui ognuno ricorrerà con piacere per trovarvi l'esposizione geniale d'un giudizio sempre ben preparato, il giudizio di chi ha tutta la coscienza del suo ufficio di critico, l'articolo infine quale intende l'Autore, che non commenta o fa postille per ostentazione, ma per istruire i giovani che tanto ama e pei quali, malgrado la salute cagionevole, continua a lavorare. Per questo abbiamo pagine scintillanti di brio, di grazia e di purezza di favella pur nella loro succinta semplicità: pagine che fanno presentire lo scrittore di Appunti d'Estetica.

IL PENSATORE

Lo Schilirò volle dare il modesto titolo di Appunti al suo trattato di estetica forse perché dinanzi ad altri, i quali non finiscono mai di parlare del problema, egli ne ha parlato in un volume di appena 220 pagine: ma, di fatto, ha addensato più idee che gli altri, e la sua opera è completa. Essa, come abbiamo visto, aveva fatto una prima apparizione ne I motivi di estetica dell'arte d'annunziana, dove però stava un po’ a disagio, perché aveva l'ufficio di chiarire o criticare l'estetica d'annunziana è estetica che teoricamente non esisteva ne poteva esistere è e di valutare l'arte del D'Annunzio. In verità essa richiedeva una trattazione a parte: e lo Schilirò, che vi aveva dedicato tutte le forze della sua mente sottile e logica e non vi aveva risparmiato lavoro e veglie amorose, colse l'occasione del fatto che il Governo, nella riforma scolastica, imponeva nei licei lo studio dell'estetica e pubblicò a principio del 1924 il nuovo libro. Intese con ciò ovviare a un bisogno urgentissimo degli alunni e anche dei professori, che, in una materia così delicata, dovevano seguire un manuale. E questo, allora, fu il primo, avidamente cercato, finché altri più succinti e poi l'abolizione dell'insegnamento della teorica nei licei non lo posero fra i libri che interessano soltanto le persone colte.

Al suo apparire l'opera sembrò, anche all'autore, buttata giù sulla carta quasi all'improvviso: ma se si pensi che già preesisteva nel saggio d'annunziano e v'erano passati su altri sei anni di vita e di riflessione, si converrà che appunto per questo essa è così completa e d'un armonia dialettica che rapisce. Tutto ormai è maturo in questo scrittore, il quale senza accorgersi fa dire di sé quello ch'egli scrive del vero critico d'arte: “Un profano potrebbe supporre che in tema d'arte il vero competente sia l'artista. Noi diciamo: sì, ma a patto che l'artista sia anche filosofo (p.16)”. In lui abbiamo l'artista e il filosofo: il filosofo che ha rifatto per conto suo uno dei sistemi più discussi, più complessi, più attuali; l'artista che ci presenta tutta la visione del suo mondo ideale in modo così vivo e limpido che “nonostante è come altrove, recensendo, ebbi a dire è le difficoltà naturali al problema, questo si delinea netto e chiaro nella mente, conquisa già dalla dialettica che si nasconde sotto le pagine limpide d'uno scrittore cui non manca mai la precisione del quadro, dei colori e del pennello. Ci sono infatti pagine, di quelle che sempre si desiderano e non sempre si scrivono”2.

Il trattato risulta di due parti, di cui la prima comprende alcuni cenni storici sul pensiero estetico: cenni necessari a conoscersi dai giovani, cui il libro è consacrato, per poter rispondere alle esigenze della scuola, e necessari anche per rimuovere una pregiudiziale. “Acciocché è dice l'autore è gli alunni comprendano le fallacie dell'antico e superato pensiero estetico, non devono cominciare col conoscere e far propria la concezione moderna dell'arte? D'altro canto...potrebbero essi formarsi un pensiero estetico definitivo senza conoscere il pensiero degli altri, lungo i secoli?” (p.13-14).

Questo secondo punto di vista avrebbe dovuto convincere, come ha convinto lo Schilirò, anche quelli che han fatto seguire la storia del pensiero estetico all'esposizione della teorica propria.

Negli Appunti d'Estetica la trattazione personale dei vari problemi segue logicamente alla parte storica.

Questa genesi logica mi fa oggi guardar meglio, che non facessi nella citata recensione, alla posizione dello Schilirò dinanzi agli altri pensatori. E non fui io solo a individuare la derivazione della sua opera da altri sistemi. Ci fu chi disse ch'egli è un crociano, e tra costoro fui io; chi disse che non è crociano per nulla; chi, infine, vide in lui un ammiratore del Croce e, come io stesso allora ammettevo, un rifacitore per conto suo dell'estetica crociana. Oggi mi pare che la vera posizione dello Schilirò l'abbia intravista il Mansion3, il quale scrisse: “Ses vues personelles trahissent une influence évidente de l'ésthétique de B. Croce: mais, en meme temps, il rejètte de la facon la plus décidèe la philosophie idéaliste à laquelle Croce a rattaché ses vues sur l'art. Dès lors, la conception ésthétique de M. S. quand bien meme elle parait se rapprocher très fort de celle de Croce par certains cotès, prend une signifiation totalement différente.”

Infatti l'Autore afferma fin da principio che l'estetica, pur essendo strettamente legata alla parte centrale della filosofia dello spirito, che scioglie in diversi modi il problema dell'anima, consente tanto ai seguaci della dottrina scolastica che a quelli della filosofia idealista di percorrere insieme un buon tratto di via. Se pensatori discordi si trovano in pratica d'accordo nel giudicare artistiche determinate opere d'arte, ciò indica che nel campo della conoscenza c'è un minimo di verità o terreno comune. Quale? Questo: che, accettato il principio (non dal solo Berkeley formulato), che nessuna realtà può essere oggetto di conoscenza se non in relazione con l'attività conoscitrice, il fatto artistico deve essere studiato come fenomeno interiore della singola attività spirituale.

Stabilito questo punto di partenza, in cui dovrebbero convenire sia i cultori della scolastica che i seguaci del nuovo idealismo, lo Schilirò si domanda: che cosa è l'arte?

Egli, che ammette il dualismo tradizionale (soggetto e oggetto, spirito e materia, ente cosciente di realtà esterna), parlando di arte distingue nettamente il fenomeno estetico (atto creativo, spirituale e soggettivo) dal segno pratico e sensibile  (marmo, libro di versi, affresco, serie di note musicali, ecc..) in cui il fatto spirituale si oggettiva all'esterno. Ciò posto, egli attribuisce l'importanza del fenomeno estetico all'atto interno, mentre considera il segno pratico e sensibile come indice, suggeritore e risvegliatore di nuovi atti interni, e quindi alla pari della natura circostante e di qualunque realtà fisica.

In tal modo, l'opera d'arte, intesa come oggetto sensibile, agisce sull'ammiratore e sveglia in lui nuovi atti spirituali e sempre nuovi godimenti estetici, allo stesso modo, per esempio, che bel panorama o una scena della vita suggerisce all'artista la creazione d'un capolavoro.

L'essenza pertanto del fenomeno estetico s'immedesima con quella misteriosa e complessa attività creatrice dell'anima umana, che è personale e caratteristica in ciascun individuo, gli atti singoli del quale sono l'uno diverso dall'altro e non si ripetono mai nell'identica forma. Così lo Schilirò, determinata l'unità e l'individualità di ciascun spirito, ne estende i fenomeni estetici a tutta la serie ininterrotta di atti coscienti che formano “il costante divenire o evolversi o vivere di esso”: serie che “parte dalle umili esperienze dell'io empirico, per pochi controverso, ed esprime non più che l'ansia di questo io verso una trascendenza e un'assolutezza che è il travaglio dei più.”

Onde, in sostanza, l'arte si rivela creazione, stima divino, perché dal misterioso dinamismo spirituale è “piccola e grande immagine del Primo Principio” è vien fuori incessantemente e con reale originalità quella inesauribile catena di atti interni che si chiama vita. Intesa in questa maniera “l'arte non può esser contenuta né da generi o classi, né da cataloghi, ma segue l'ansito misterioso e le vicende molteplici della vita. Così essa diviene l'espressione perenne, a ogni attimo nuova, di tutti gli spiriti, per tutte le forme, per tutti i bisogni. Diventa cioè il linguaggio cosciente di ciascun'anima, la quale ha un modo tutto suo d'esprimersi, ed esprime visioni sempre nuove, non duplicate mai. Essa, infatti, non è privilegio di poche anime, di quelle soltanto che eccellono per potenza e luminosità espressiva: ma crisma d'ogni essere umano. Sol perché uomo è bisognoso cioè di vivere e di divenire è l'individuo è, tendenzialmente artista, come la vecchietta che inventa storielle immaginose di fate, come il contadino che para il linguaggio vivido e incisivo, come l'uomo d'affari che lusinga ed abbacina il prossimo, come il solitario che vive di sogno. Tutti, quantitativamente, più o meno artisti” (p.124)

Da ciò che abbiamo visto, risulta chiaro che l'estetica dello Schilirò si differenzia nettamente da quella del Croce nel precisare l'elemento costitutivo dell'arte. Mentre per il filosofo idealista e per quanti, sotto la preoccupazione intellettualistica, scorgono nel momento creativo artistico la fase più modesta e ingenua della conoscenza, l'arte è visione o intuizione, un fatto cioè di natura soltanto fantastica, medio tra i fenomeni sensuali e quelli intellettivi, per lo Schilirò, che si basa sull'unità inscindibile dello spirito, gli elementi costitutivi del fenomeno estetico cominciano dalla sensazione cosciente e comprendono le intuizioni e tutte le forme della conoscenza superiore: perché, se è vero che l'arte, creazione espressiva e rappresentazione, rifugge dal travaglio speculativo e vive della sua tendenza intuitiva, non è meno vero che la medesima tendenza a vedere è l'ansia perenne dello spirito inteso come intelligenza; e le stesse speculazioni intelletive altro non sono che una serie di gradini che menano alla visione. Cosicché l'intuizione, che per l'idealista è forma bassa di conoscenza (e l'arte conseguentemente un'attività modesta dello spirito), per l'Autore è uno stimma e connotato divino: giacché Iddio vede senza bisogno di discorrere. E l'arte, rifuggendo dal faticoso argomentare, ci apparisce come la più bella tendenza umana a elevarsi verso il Creatore.

Da questo concetto fondamentale è che fa coincidere le forme individue dell'attività estetica con la teoria indefinita di atti, sempre nuovi e fra sé distinti, onde risulta il dinamismo dello Spirito è lo Schilirò fa derivare l'indipendenza esistenziale dell'arte del suo contenuto, sia logico che morale. La quale illazione, dimostrata giusta dal fatto che non tutti gli atti interni si sommettono alle esigenze della verità e dell'etica, è confermata dall'esperienza quotidiana che non tutte le opere d'arte sono esempio di castigatezza e di coerenza logica.

Ma, come ho notato, si tratta d'indipendenza esistenziale o possibilità di verificarsi (analoga al libero arbitrio), non d'indipendenza assoluta: giacché il fenomeno estetico, considerato “come valore umano da estrinsecare e coordinare insieme ad altri valori pratici, deve sommettere la sua indipendenza all'economia delle maggiori finalità umane. Infatti, dal punto di vista utilitario, l'estrinsecazione dell'arte non può culminare in un'attività affatto indipendente dalle altre forme di attività spirituale. Se l'esprimere con segni esterni è forma di attività utilitaria (piacere e dolore, utile e nocivo), e se l'unità pratica dello spirito impone che ogni espressione si coordini a un'economia superiore, come è quella etica e razionale, si deduce che la libertà artistica incontra un limite logico nelle altre forme di attività. Onde l'indipendenza o liricità estetica deve talora rassegnarsi a quella mortificazione cui l'uomo filosofo o moralista crede di doverla assoggettare a tutela degli altri valori umani” (165).

Un altro lato originale dell'estetica dello Schilirò è la posizione netta e conseguente da lui presa dinanzi alla critica.

Stabilito che il fenomeno estetico, in chi s'appressa ad un'opera d'arte, consiste nel ricredere nel proprio spirito la visione artistica dell'autore, appare logico che, a seconda la capacità o le attitudini dell'osservatore o goditore dell'opera, la nuova riproduzione spirituale possa riuscire migliore o inferiore all'originale. Ma ciò non ha niente da vedere con giudizio, sempre relativo, che si può dare d'un lavoro e che si riduce in ogni caso alla semplice o gratutita asserzione: questa è opera d'arte, quest'altra no. Anzi, secondo lo Schilirò, il giudizio, che critica o analizza un fatto spirituale già verificatosi, è un nuovo atto spirituale che soppianta il primo, ed è quindi la negazione di esso. Chi giudica pertanto d'un lavoro con intendimenti pratici, scientifici o morali, può compiere una nobilissima fatica, ma non perciò avrà fatto critica estetica: perché critica ed estetica sono termini antitetici. Così, per esempio, il lettore dell'Orlando furioso, rifacendo con Astolfo il viaggio alla luna, ricrea in sé un fenomeno estetico: mentre, esaminando quel viaggio nei rapporti del mezzo inadeguato e delle difficoltà di volare dentro e fuori l'atmosfera, raggiungerà una più utile e scientifica conclusione, ma più finirà per annullare la prima visione fantastica, così come s'inibirebbe ogni godimento estetico colui che andasse a teatro con l'assoluto preconcetto d'assistere a delle finzioni e delle falsità.

In conclusione, per lo Schilirò la critica, o tutto quello che va sotto il nome di critica estetica, e conseguentemente anche la storia dell'arte, può avere tre aspetti: o è pura ricreazione, e allora va intesa come rifacimento spirituale dell'opera; o è un lavoro logico a posteriori, che sorge in confronto col fatto estetico, e allora, per quanto nobile, è un vero soppiantamento di questo; o vuol essere aiuto o mezzo per delibare l'arte, e allora riesce una fatica vana, perché il gusto non s'insegna ne si suggerisce. Motivo per cui egli consiglia ai suoi giovani di buttar via quelli che boriosamente si battezzano commenti estetici: “Voi non siete creta da plasmare, ne vasi da riempire. Siete anime libere, che vogliono vivere, ciascun per sé, in perfetta autonomia” (p.217).


L'ARTISTA

Da questi principi è coi quali il filosofo, con dialettica semplicissima ma sicura, che lo toglie da qualsiasi preoccupazione di potersi mai contraddire e doversi quindi correggere, guida l'artista, e per la quale dà il soffio animatore al filosofo è escono le due creazioni geniali: Santo Francesco e Il seminatore che non miete.

Del primo ebbi a occuparmi due volte: una, al suo apparire, per recensirlo: un'altra, un anno dopo, per difenderlo da un'ipocrita accusa, che proveniva da un mal concepito rancore, anziché da onesti scrupoli. Ora non è il caso di dover guardare ai miei due articoli, inseriti nel settimanale La Croce: articoli confortati poi, specie il primo, da letterati di maggior competenza. Qui guardo semplicemente al dramma.

Il poeta, preparato dal grande amore e lungo studio di cui sono stati nobili indizi raccolta di versi e il maturo sistema dell'estetica, si trova davanti al mondo osannante alla sublime figura del Poverello d'Assisi. E, a differenza dei più che s'inducono a scrivere spinti da tornaconto o dal soffio della moda che si ficca dappertutto, anche nelle cose sacre, egli s'avvicina al Santo con la purità e semplicità di cuore dei discepoli di Lui: lo vede, lo sente, ne respira il profumo e la santità, e può dire che cosa l'ha mosso a cantare di Santo Francesco: “il fascino della poesia che ridonda fresca e perenne dai Fioretti; il riflesso della luce chiara, mite, suggestiva, dei colli e dei ricordi umbri, della quale ho ancor pieni gli occhi” (Prefaz.). E aggiunge: “Ho lavorato ben poco di fantasia”.

Non c'era, in verità, bisogno di lavorarci di più se la sua fantasia, commossa dai Fioretti e dalle più ingenue pubblicazioni francescane, s'era creata luminosamente viva la figura del Santo e più vivo, perché più immediato, il ricordo dell'Umbria verde, visitata poco prima: se, cioè, la storia, quale l'avevano ritessuta il Sabatier e il Joergensen, per lui era vita, ridondante di nostalgia pei fantasmi francescani.

Ecco spiegato il motivo del suo voler partecipare con sentimento addirittura religioso alla grande ricorrenza centenaria. E così si spiega anche perché egli scelse la forma drammatica, la quale più s'adatta ai tempi, che mal sopportano i più lunghi poemi, e meglio si presta a far rivivere le situazioni più salienti della vita del Poverello.

Ma il Poeta lavorò veramente poco di fantasia? A me sembra invece che lavorò moltissimo. Poiché, se nulla egli ha tratto da un fondo arbitrariamente soggettivo, ma tutto ha desunto dalla storia, ciò non diminuisce affatto l'originalità della creazione: anzi rivela una virtù mirabile: quella che forma il poeta. La sua fantasia ha saputo far sorgere dall'ambiente storico, come da un mare agitato e insieme luminoso, la serafica figura di Francesco, con cui ha parlato, vissuto e palpitato, nelle verdi plaghe dell'Umbria e in quelle arse dell'Egitto, nei momenti idilliaci e in quelli tragici o elegiaci, da solo a solo o in mezzo a quelle anime che, abbandonato il mondo, si stringevano intorno al Poverello per godere la santa letizia.

Dominato da questa magnifica ispirazione, lo Schilirò ha tratteggiato con molta freschezza e con molta luce le scene più poetiche e più suggestive della vita francescana, riuscendo anche ad accostare, sapientemente fondendola, la nostra favella a quella del duecento: elemento formale che non tradisce nessun artificio, perché nato con le visioni stesse.

Possiamo dire che nel candido volumetto si trova integralmente riassunta la vita di S. Francesco dal 1207 al 1226: tanto che, ove non occorresse per ragioni di studio, si potrebbe far a meno di qualunque delle tante biografie che di lui si sono scritte. Ma la storia è mi preme insistere su questa osservazione che costituisce il premio dell'artista e il piacere di chi legge è stata superata dalla fantasia ed è divenuta realtà poetica: onde il Santo, per il miracolo dell'arte, ancora una volta vive, palpita e fa palpitare.

Chi può dire che dinanzi alle scene del primo atto non si sia proprio dinanzi a Francesco, che eroicamente si stacca da un passato gaio e ancora invitante, e lotta col padre, fino ad avere il consenso e l'aiuto di Monsignor Guido? Sono scene animate da una ricchezza mirabile di personaggi, tra cui spicca la Sconosciuta, la quale, per quanto fugace sia la sua apparizione, desta subito interesse e mette in ansia il cuore del lettore. È questa un'altra prova della fantasia del Poeta, che si serve d'un espediente nuovo in questo genere di dramma. Nell'atto secondo vediamo il Poverello di Dio nei pressi d'Assisi, quando già ferve l'opera sua in mezzo ai discepoli. I luoghi non ci vengono descritti: ma dalla vita e dall'accento dei personaggi spira l'aura dell'Umbria verde, la Palestina francescana e, più, della Porziuncola, ormai tanto cara agli ammiratori del Santo.

Una bella sorpresa ci riserva il terzo atto, che rappresenta la missione di Francesco nell'Egitto. A lui non basta la vittoria su Melikel-Kamel, che è la vittoria sul mondo; vuole anche la vittoria sulla carne, la quale fa qui l'ultima e la più violenta apparizione. Quando il Santo crede di potere, nella libertà concessagli dal Sultano, iniziare il suo apostolato in mezzo agli infedeli, ecco la Sconosciuta dell'atto primo, divenuta l'immagine della corruzione. Egli non la riconosce: ella sì, e si slancia con tutta la passione e l'ardire della donna che non conosce più il pudore. Questa scena, non raccolta dalle biografie, è quella stessa che in forma aneddotica intessono i Fioretti. L'effetto è sorprendente, e non menoma, come qualche fariseo cercò di malignare, la casta bellezza della figura del santo: poiché è come rilevai nel mio citato articolo è anche Gesù esce più splendente dalla riabilitazione di Maria Maddalena, per la quale il vangelo ha una delle pagine più commoventi. Lo stesso pio autore dei Fioretti dovette aver presente l'episodio evangelico se non solo non tralasciò il fatto, ma lo raccontò con un verismo che non ha nulla da invidiare a quello dei nostri tempi. Del resto la elevatezza del Santo, la lotta e la vittoria, il miracolo della conversione riescono nel dramma così vivi e belli che attraggono nella loro bellezza, dominandole, le lusinghe della tentazione. E il finale dell'atto lascia in un'ansia indicibile: quella di rivedere la Sconosciuta, che parte per San Damiano con un fascino di luce celestiale.

Col quarto atto siamo di nuovo nell'Umbria, tra le mura del pio monastero dove Chiara bea della sua santità le anime a lei affidate. Le scene di quest'atto ha potuto solo immaginarle e solo può gustarle chi, con cuore puro e semplice, s'è avvicinato a cuori semplici e puri. Omnia munda mundis: e perciò il racconto del miracolo delle stimmate fatto da frate Leone, le ansie di Maddalena, le devote e gentili premure di Chiara per gli occhi del Poverello, e gli slanci del Santo han qualcosa della sublime situazione delle anime nella valletta amena dell'antipurgatorio dantesco. Tutto l'atto è un sublime idillio, di cui il Cantico del sole è il finale magnifico: canto che fa pregustare la musica celeste e al quale quelle anime si son da tempo preparate, compresa Maddalena, la cui umanità sembra rinata a nuova vita: la vita che Francesco le ha rivelato.

Col solito trapasso lirico, nel quinto atto assistiamo alla fine di Francesco. Com'è vero che Francesco dà luce a tutto! Finora l'abbiamo visto in mezzo alle sue pecorelle e, pur dolorante, essere letizia a tutti, così che anche le belle contrade della Porziuncola piglian quasi da Lui lo splendore e la gaiezza. Ora che Francesco se ne va, par che tutto si renda conto di questa dipartita e si veste di malinconia e di tristezza. Il mondo che s'era rinnovellato alla parola e ai portenti di Francesco, ora crede di tornare indietro. Sunt lacrimae rerum, sarebbe il caso di dire. E il Poeta, che ha in sé qualcosa di Francesco, sembra partecipare alle ansie e ai dolori dei discepoli che intorno a Lui piangono. Da ciò nasce, senza sforzo alcuno e senza artificio, quel non so che di dolce tristezza che fa pensare alla sensazione provata dall'Alighieri nella divina visione: “ancor mi stilla Nel cor lo dolce che nacque da essa”. Ed è questo il premio delle anime che più si sono avvicinate al Santo e l'hanno commemorato in ispirito di verità, elevandosi con Bernardo al di sopra d'ogni pena sensibile e di ogni pianto umano:

No! Ei fu rigenerato
a la gloria celeste.
Finché l'amore ha un nome,
finché l'amore ha un palpito,
finché s'ascolta di Gesù la voce,
Francesco vive!

Dinanzi a questo dramma, che tanto ha appassionato i lettori e ha meritato il consenso di tanti artisti (Antonio Anile lo mette tra la più bella poesia di questi ultimi anni), chi è abituato alla tradizionale catalogazione retorica non esiterebbe forse ad assegnarlo al romanticismo. Non certo a quel romanticismo che fu l'ultima fase è fase di degenerazione è e ci diede lavori pieni di morbose affezioni d'animo e d'inutili svenevolezze; ma a quello d'una vita consapevole e delicata, in cui il patetico, alimentato da una serie di vicende dolorose, è nobilitato dalla fede e dalle sue incrollabili speranze. Di esso abbiamo un luminoso esempio nei momenti migliori del Fogazzaro, il quale, soprattutto nel Piccolo mondo antico, seppe rappresentare è e farla vivere a quante anime lo compresero è la vita d'un mondo intimo, profondamente reale e palpitante verso forme e ideali sublimi, a cui l'umanità ha sempre mirato con la nostalgia dell'esule alla patria.

Guardato così, il Santo Francesco è l'ascesa d'una delle più belle vette della vita, e commuove ed esalta quanti si trovano sulla via dell'esilio a mirare il passaggio dell'eroe, che ascende col labaro della vittoria.

Dopo di lui un altro eroe ascenderà una diversa vetta, sulla cui pendice sono altre anime doloranti, ch'egli, passando, incoraggerà, con la parola buona della fede, verso la cima del monte, dove rifulge il segno della religione e della patria: e da questa ascensione verrà fuori la storia dolorosa del Seminatore che non miete.



Tutta una vita spesa nel culto delle lettere e le ansie sopportate nel periodo dell'immane guerra, da cui la nostra generazione è uscita come disorientata, han condotto il poeta a quest'opera, che riflette proprio quel periodo e i primissimi anni del dopo-guerra. Si vorrebbe chiamarla romanzo o poemetto, a seconda che si guardi alla favola o alla forma; ma a me pare che abbia qualcosa dell'uno e dell'altro. Quello però a cui non bisogna dare valore assoluto è proprio la favola. L'opera s'ha da guardare nel complesso dei suoi svariati elementi, anche di quelli minimi, che alle volte paiono insignificanti.

E' per la solita abitudine scolastica di ricercare la fonte o il motivo ispiratore dell'opera che noi sogliamo dire che dal periodo dello Sturm un drang escono I dolori del giovine Werter, dalle vicende passionali del Foscolo e dalle sue delusioni politiche Le ultime lettere di Jacopo Ortis, e da un'educazione schiettamente romantica il poemetto Miranda e Il mistero del Poeta del Fogazzaro. E con codeste opere la nostra potrebbe assomigliarsi in quello che ho chiamato favola. L'amore sfortunato di Massimo per Bianca ci rimena a Werter e a Carlotta: l'amore sacrificato sull'arte della patria ci rammenta Jacopo Ortis; e l'idillio, sebbene miseramente finito, ci fa pensare a Miranda.

Ma è ripeto è nel Seminatore l'interesse non è destato dal racconto, che, del resto, è semplicissimo. Massimo, appena laureato in giurisprudenza, lui stoffa di poeta, incontra Bianca, un'anima che lo comprende; se ne invaghisce, e si fidanzano. Ma scoppia la guerra, ed egli s'arruola volontariato e va a difendere la patria. Viene ferito gravemente e sfregiato orribilmente nel volto. Tutto è perduto. Che farà Bianca? Sèguita ad amarlo, anche dopo il sacrificio. Infatti quando egli muore, addolorato dalle discordie civili che mettono in pericolo i frutti della vittoria e la sicurezza della patria, per cui Massimo e il suo amico Guidotti hanno immolato la gioventù, ella si volta a una missione di bene e di civiltà.

Semplice dunque l'intreccio, e nobile: molto somigliante a uno dei mille avvenimenti pietosi che la grande guerra partorì. Ma è notevolissimo l'effetto estetico, perché la narrazione, superando ogni influsso retorico che potesse provenire da ricordi letterari, si anima della grande esperienza del Poeta e ne rende con immediatezza le più vive e delicate impressioni. Queste impressioni nascono da due elementi essenziali e indiscindibili: l'amore di Massimo per Bianca e l'amore suo per la patria. Il doppio dramma ci vien illustrato da brevi, fugaci e alle volte indirette notizie, che paiono epigrammatiche: onde il suo svolgimento è lasciato alla fantasia del lettore. Ma il Poeta, per una virtù di sintesi straordinaria, ha saputo infondere tale soffio a quelle fugaci note, che il lettore vola ad ali spiegate per tutto il campo dell'azione, ch'è abbastanza vasto. Però tutte le gioie delle ore di speranza, le angoscie dei giorni tristi, tutta la vita e l'ideale di Massimo stanno nei suoi canti: poesie di diverso metro, in cui la tecnica dell'arte è fusa così mirabilmente coi vari sentimenti del poeta, da formare liriche delle quali oggi, ch'è un continuo affannarsi alla ricerca d'una forma genialmente nuova, s'ha tanto bisogno.

Bianca non si sente, ma compare in iscena coi richiami di Massimo: del suo poeta. Non è però meno viva e meno presente. Si sente anzi che palpita con Massimo. Allo stesso modo s'avverte la presenza di Pietro Guidotti, che qualche rigo ha scritto e con tanto amore ha custodito i versi e la memoria dell'amico. Povero Guidotti! Anche lui ci riesce caro, e soffriamo della sua angoscia quando alla perdita dei suoi occhi bellissimi, sopportata con rassegnazione per amore della patria, segue lo schermo dei tristi al suo eroismo.

L'amore della patria: ecco il centro del dramma. Senza quest'amore, ne il culto di Bianca, ne l'orrenda mutilazione e il lento disfacimento di Massimo, ne l'accecamento del Guidotti avrebbero importanza o un significato qualsiasi.

Per esso invece la vita, pur nelle più gravi sventure, diventa bella, perché dal sacrificio e dal dovere compiuto germinerà una vita migliore. Concepita così, l'esistenza volge a quell'ottimismo che comincia a guidare la nostra generazione dopo che si è superato il disorientamento impresso dalla guerra e si è curato il risveglio de' valori spirituali. Risveglio benefico anche in letteratura: ché, dove una piccola corrente vagava ancora negli angiporti dell'immoralità, per finire in essi, e il futurismo si rivelava impotente ad infondere nuova vita all'altro depressa dall'immane accidia ch'esso aveva esaltato, coloro invece, che avevano confidato nelle migliori energie della Nazione, fanno opera più duratura e meglio sentita dal popolo italiano. E questa corrente di sano ottimismo, che ha già superato l'orgasmo dei partiti estremi e ha visto la Nazione riprendere alto il suo posto nel mondo civile, possiede ormai una letteratura tutta sua.

Non ultima, in questa, siede l'opera dello Schilirò. La quale, nel doloroso dramma dell'immediato dopo-guerra, non poteva rappresentare con colori più vivi e spiccati l'altalena che vi facevano il pessimismo e l'ottimismo, col logico e assoluto prevalere di questo. Infatti ai sospiri di massa, culminanti nella canzone Gli esuli, scritta pel cieco eroe misconosciuto, seguono le belle speranze di Notte di promessa.




Col Guidotti il Poeta s'era lamentato così:

E' vedo te, muto lo sguardo, fremere
sul Canal Grande, che riflette, a sera,
l'ostello Vendramin-Calergi, dove
del Tintoretto vaga ancora l'ombra,
mediante le Nozze,
e tacque è ohimé, spezzato è di Riccardo
il canto, d'altre note sospiroso.

L'avido spirto, no, non ti conforta
de l'Andria la regina:
non le memorie vive e luminose
onde fulge San Marco, unica gemma;
non gli echi de le pompe, quando il Doge,
fra l'osannante popolo, cingeva
l'insegna ambita, e 'l ricco Bucintoro,
tra innumere galere pavesate
avanzando superbo, si gloriava
de l'alma Dogaressa, scintillante,
tra le più belle, di turchesi e vai.

Ivan da la Giudecca, ne le sere
tepide, mentre la città folleggia
fra canti e suoni, s'alza e lussureggia
una flora di sogno, che si strugge
e rinnovella in mezzo a luminosa
piova di fronde e petali,
che accende l'acque tremolanti d'oro;
e invan, tentando il malioso specchio,
domandi a la laguna,
che sa i segreti de l'amore, in festa,
che ti riveli il sublimante arcano
onde le coppie innamorate alletta
al chiaro di luna,
su scivolanti gondoline brune,
cui da lontan saluta
un infocato accento di mandòla.

Indarno. Leggo nel tuo sguardo spento
l'ansia di chi dolora e invoca: l'ansia
che ci flagella: spasmo d'una meta
che si dilunga. Mai,
sul pallido tramonto,
han sospirato gli esuli così:
ché grazia non ispera il bando nostro
finché le aperte piaghe
saranno altrici di vergogna e turpi
gramaglie aduggeranno i sacrifici
e per l'Italia e per l'amore compiuti.

Ma, prima che la giornata finisca, torna il sereno:

un raggio dorato di sole...
... il lucido sguardo di Dio,
che rompe il mistero infinito
e fuga dai cuori basenti
la morte in agguato...

Non poteva essere diversamente. Si scorge subito che il poeta del Seminatore, è il poeta del Santo Francesco. Come nel primo, così nel secondo lavoro la sua idealità è la vita buona, cristiana, dedita al sacrificio e ad una gloria che sdegna i confini terreni; e in fondo alle speranze dell'eroe, che consuma il massimo sacrificio, par di sentire l'accento ispirato del Poverello d'Assisi che insegna la perfetta letizia.

Vorrei chiudere questo breve esame del libro con qualche altro saggio dei canti, che a mio giudizio sono d'eccezionale bellezza e, come rubini, scintillano d'immagini e di sensazioni: ma resto perplesso nella scelta, perché la forma del poemetto è come osservò Ugo De Maria in Rassegna d'arte è “sempre nobile e suggestiva e ci richiama, non di rado, alla grande arte fogazzariana. Ma non sì che qualche volta non se ne distacchi per quadri d'intensa classicità”. Si legga nondimeno Cosi sognai...


Andavo, andavo solo, trafelando
per la steppa infinita, irta di rovi.
Chi cercassi non so. Di quando in quando
spiavo l'orizzonte. Nulla. Nuovi

pruenti, nuovi strappi sanguinanti
e nuovi lai. Ma niuno rispondeva
a le chiamate folli e lancinanti:
neppur l'eco pietosa si doleva.

Lo narro ai figli che non sono più
sotto l'ali materne. Disperavo
pur de la mamma mia, ch'era lassù,
di lei che un solo istante non scordavo.

Confesso subito: sbagliai. Straccato
già m’abbattevo su gli sterpi acuti,
vagente come bimbo, quando allato
m'apparve lei... e ci guardammo muti.

Lieve, più bella, mi levò in braccia
e, adagiando sul seno immacolato
la mia dolente lacrimosa faccia,
m'accarezzava il corpo tribolato.

Che carezze, che baci mi donava!
E da le poppe, che m'avean nutrito,
tal rigagno d'amore zampillava,
che mi sentii tosto inanimito.

Rideva il sole, e mi parean fallaci
financo i pruni; ond'io m'addormentai
con la dolcezza in core di quei baci.
Lo dico ai misteri: così sognai...

E se si vuole un saggio di poesia patriottica, si legga Oslavia:

Un'alba livida, nebbiosa, scioglie
le bende al Sabotino
scabro, puntuto. Ombre pugnaci sguisciano
da l'insidiose balze butterate
e per gli anfratti sfilano.
Nel cielo ronzano mostruose sfingi
è cuori di fiamma, antenne fucinate
dal dio vulcano. Là, verso ponente,
brillano razzi, occhi giocondi e vigili:
rispondono barrendo,
come impazzate belve,
mille cannoni, e laceranti fischi
frugano i campi nel silenzio armati.

Su l'orizzonte torvo
un gran bagliore fumido si sfrangia:
e tonfi ed ululi rullìi sinistri
scuotono Oslavia, pavida, assonnata.
All'erta! è l'ora!

Un grido immenso erompe
sotto il terrazzo impervio,
e deliranti ondate
di balda giovinezza, ne la luce
incerta, frangonsi su la scogliera,
ciclopica fornace.
Ansiti; luccicar di spade; appelli;
imprecazioni orrende;
e sangue... sangue... cui
bieca e senza pietà l'ira calpesta.

. . . . . . . . . . . .

Alto, sul rogo eroico,
ronza lo sciame alato. I campi fumano.
Straziati corpi è effigi di galestro è
posano immemori. Nell'occhio fiso
l'anima fulge di pensosi vati
nel destino fruganti. E intorno svolano
vendicatrici l'ombre non placate
di cento pugne, d'inumane forche,
di fulgide riscosse.
Impaziente, altero, speranzoso,
l'Isonzo incìta: Avanti, Italia, avanti!

RACCOGLIMENTO OPEROSO

Nella Tribuna del 2 gennaio del 1927 Filiberto Scarpelli, direttore del Travaso, pubblicava un trafiletto dal titolo “Uno spostato che è sempre a posto”, col quale invocava dal Governatore di Roma la rimozione della statua di Nicola Spedalieri dalla piazza di S. Andrea della Valle. L'inopportuna richiesta, che negli uffici amministrativi dell'Urbe prese le parvenze d'un provvedimento edilizio, addolorò la cittadinanza brontese che elevò subito una dignitosa protesta. Vincenzo Schilirò, facendosi portavoce dei sentimenti dei concittadini, scrisse due nobilissimi articoli, uno sulla Croce del 13 gennaio e l'altro sul Giornale dell'Isola del 16 gennaio 1927, per richiamare l'attenzione del Governo sulla delicata questione e per difendere la genialità del filosofo siciliano dagli attacchi irrispettosi ed ignoranti dello Scarpelli. Gli articoli ebbero un'eco favorevole nelle sfere intellettuali e governative, e la statua restò al suo posto. Quest'occasione fece vedere che il polemista del Domani! conserva intatto il natio vigore combattivo e, ancora una volta, riusciva a far valere il suo punto di vista, basato sulla giustizia e sorretto da valide ragioni.

Vennero in seguito, e come puramente occasionali, due opuscoletti: F.T. Marietti e il futurismo, scritta in occasione che lo Schilirò assistette a una conferenza del Marietti; e Nozioni di letteratura (1929) per le scuole medie. Si tratta di due brevi lavori, destinati, più o meno, tutti e due ai giovani, ma cui lo schema si delinea netto e l'esposizione chiara, precisa e linda, non meno di quella delle altre opere. Qualunque cosa lo Schilirò imprenda, si constata sempre meglio che la lucidità è dote essenziale sia del suo pensiero che della sua espressione; cosicché m'è occorso veder dei giovani, ordinariamente impacciati dinanzi a certi manuali scolastici, uscir persuasi e contenti da questi dello Schilirò.

Il quale, pur lavorando per la scuola, non cessa di pensare alla causa dell'arte, che è vita della società.

Negli Appunti d'Estetica egli ribadisce, è vero, l'idea crociana che l'arte non ha nulla a vedere con la moralità, ma insiste anche sul concetto manzoniano che l'arte deve servire alla moralità; e l'artista, nell'ispirarsi e nel comporre, deve accarezzare ed accogliere quelle visioni che tendono non a corrompere ma ad educare i costumi sociali. Ispirato poema drammatico Il Carroccio, opera di passione patriottica e di fede religiosa, che ci riconduce alla calata di Federico Barbarossa in Italia nel 1162, alla distruzione di Milano e alla gloriosa gesta della Lega lombarda, culminante nella battaglia di Legnano.

Il lavoro è veramente un poema, perché, nonostante del dramma abbia la forma e le proporzioni, pure la sostanza drammatica e fantastica si fonde così con l'ampia visione storica di quel luminoso periodo da formare un poemetto, una piccola epopea, dove l'autore profonde bellezze di scene, di verso e di lingua. Pel valore poetico Il Carroccio fa il paio col Santo Francesco; e penso che se la crisi del teatro e le difficoltà della messa in scena non ne ostacolassero la rappresentazione, l'effetto e il successo de' due lavori sarebbero sicuri.

L'attuale sosta dello Schilirò è solo apparente. Il suo raccoglimento è invece operoso; ed io, che per l'intimità dell'amicizia ho potuto seguire la sua attività e leggere parecchi manoscritti suoi, posso dire senza commettere indiscrezioni ch'egli, oltre a lavorare per gli studenti (pei quali sta volgendo in chiara prosa la Divina Commedia), ha già pronti un racconto veronese dei tempi scaligeri, un dramma moderno Ombre e luci e una commedia, Gente per bene.

Scrupolosissimo educatore della gioventù, il poeta si mostra molto restìo a licenziare gli scritti alla stampa, per delicate ragioni d'opportunità; e d'altra parte si vede costretto trarre i suoi insegnamenti morali da visioni della vita moderna, di cui la gioventù è purtroppo continua spettatrice. Proprio quello che succedeva al Parini. E con lui m'auguro sarà d'accordo lo Schilirò nel vincere la sua riluttanza a pubblicare.

Ombre e luci è un dramma d'ambiente veneziano. Dopo la guerra e sullo sfondo delle bellezze lagunari, la corruttela dell'aristocratica vita mondana apparisce in aperto contrasto con la coscienza educata al dovere e sorrisa da un raggio di vita pura. Il lavoro è molto ricco di poesia; ed il terzo atto è intensamente drammatico.

Gente per bene sembra, a prima giunta, scritta tanto per far ridere e in un momento di buon umore. Ma quanto amara realtà non si nasconde sotto quel velo faceto, e quanto sarcasmo in quel sorriso, per cui pare che l'autore si sollazzi! Ha la commedia tal vivezza di rappresentazione che vorrei definirla una parodia poetica della vita minuta che si vive nei ceti più avidi e boriosi della società moderna.

Son sicuro che, pubblicando questi lavori, lo Schilirò darà ai lettori un vero godimento.



Non sappiamo quale sarà l'attività di questo fervido ingegno ora che, ritiratosi dalla scuola, passa la calda estate in un'amena villeggiatura sui monti natii e il resto dell'anno nella sua poetica dimora sita in uno dei punti più deliziosi di Catania. Io credo che mi sia lecito di poter ripetere: “De' tuoi canti il nido è Il covo de' tuoi sogni io ben lo so”. Altri fantasmi animeranno ora la sua fantasia, e altri problemi dell'estetica, su cui nessuno può presumere di dir l'ultima parola, saranno meditati.

Probabilmente i lavori, cui accennammo, vedranno la luce, ed altri ne saran preparati, e forse sarà scritto quel romanzo che da tempo aspetta d'essere scritto. Il ritiro dalla scuola, insomma, e quest'appartarsi, che per lui si chiama riposo, ci fa sperare moltissimo.

Ciononostante, egli può voltarsi indietro e guardar con animo pago e rilevare che le opere sue non sono molte, ma nemmeno poche. Fortuna anche questa: per lui, che, pur potendo, non ha voluto mai scrivere in fretta e a cuor leggero; per noi che abbiamo il piacere di trovare l'artista già formato in quasi tutti i lavori, eccettuate (come a suo luogo ho accennato) Primavera triste che si deve agli anni giovanili del poeta, e qualche traduzione, che, per esser traduzione, non può naturalmente valer un'opera originale.

In quasi tutti i lavori dello Schilirò, ho detto, possiamo veder l'artista già formato. Ma qui vogliamo rivolgere, per l'ultima volta, lo sguardo all'opera intera e veder l'ascendere di questo scrittore, non a segnar diverse tappe nel suo cammino, bensì a raggiungere la vetta luminosa d'un monte acquistato, starei per dire, in brevissimo tempo. Lo si è osservato critico, pensatore e poeta. E queste non sono tre attività diverse, ma tre facce dell'unica attività del suo spirito: ché egli è essenzialmente poeta, a qualunque cosa attenda.

A considerare infatti le prime opere sul Carducci, si nota la grande diligenza delle ricerche storiche e filologiche, ma s'avverte in pari tempo che l'A. è così padrone di tutto l'insieme che dimentica d'esserne il critico e lo storico, e diventa è senza che lo voglia o se n'avveda è il biografo geniale, il quale a chi non s'interessa del fatto letterario diventa un ameno romanziere. Così si legge La credenza carducciana e, soprattutto, Il Romanticismo e gli amici pedanti. Anche senza i posteriori lavori, noi avremmo ugualmente visto nello Schilirò le virtù di saper rappresentare i caratteri più disparati nella scena della vita. A questa virtù geniale si aggiunga la semplicità e limpidezza del dettato, che sa della tradizione manzoniana ormai uscita sicura dalle molteplici disquisizioni sorte intorno allo spinoso problema della lingua.

Codesta virtù d'assorbir tutti gli elementi formali, di comporne un corpo e presentarlo vivente, a principio la vediamo esercitarsi intorno a figure storiche; appresso intorno alle intricate questioni dell'estetica. Ed è la stessa attività, ma naturalmente più complessa. Quel che prima era piuttosto un racconto o il dibattimento critico d'un fatto letterario, diventa poi meditazione solitaria di chi vuol rendersi conto del proprio ufficio di critico. E' la situazione del pensatore. Ma l'artista è sempre quello.

Più tardi ci troveremo dinanzi allo scrittore che da un lato ha acquistato maggiori esperienze, dall'altro sente il bisogno di condensar i pensieri per essere più breve, pur mantenendo la medesima chiarezza d'esposizione e limpidezza di dettato. Che l'artista sia sempre lo stesso, non c'è mediocre lettore che non lo veda; ma che passi di gigante da La credenza carducciana ad Appunti d'Estetica, e da questi a F.T.Marinetti!

Nella prima opera è lo scorrere del ruscelletto visibile quasi onda per onda: scorrere che non si riconosce più nell'ultima attività giornalistica, dove la varietà del periodare e gli elementi espressivi s'integrano così, che è difficile distinguervi è per ritornar alla metafora è onda da onda. Là è il periodo semplice ed una lingua che sa tutta la trafila dei grandi scrittori nostri; qui è il soccorrere del periodo all'ampiezza e alla complessità delle idee, è una lingua che l'uso ha arricchito anche di solecismi, provincialismi e perfino di barbarismi, già accettati dalla nazione e diventati, come per incanto, di buona lega. Tanto, il giornalismo è strumento dei rapporti internazionali è oggi ha fra noi più cultori che non ne abbia Dante; e, se si vuol essere scrittori popolari, bisogna non guardar soltanto al Tommaseo, al Leopardi, al Manzoni e nemmeno è molto meno è ai trecentisti, la cui importanza sta in altri pregi. Basta dar un'occhiata ai vocabolari del Fanfani-Rigutini e dello Zingarelli per veder che abisso c'è fra scrittori e scrittori, fra vocabolario e vocabolario.

Tutto questo è concludendo è ci rimena a dover considerare lo Schilirò come poeta che assomma in sé le virtù d'uomo, di letterato e d'artista. Poeta, ha scoperto, almeno in parte, il mondo del suo spirito, incapace di chiudersi in sé, bramoso d'espandersi quanto più sia possibile. Per ciò la sua cultura diventò arte, perché in lui cultura e vita sono uno stesso palpito; e per ciò il suo spirito è asceso alto, con una dignità tutta sua, e l'eroe che più l'accende è perché anche lui inclina all'amore degli uomini e della natura è Santo Francesco. Non a torto quel dramma è fra i lavori suoi che più gli stanno a cuore.


Bibliografia di
VINCENZO SCHILIRO'

*

L'ARTE POETICA DI ORAZIO è Traduzione in versi, 1910.

IL ROMANTICISMO E GLI “AMICI PEDANTI” 1912.

PRIMAVERA TRISTE è Versi, 1912.

LA CREDENZA CARDUCCIANA E SUO VALORE è
Prima ed. 1912; seconda ed.1917.

IL COLPEVOLE è Dramma, 1918

I MOTIVI ESTETICI DELL'ARTE D'ANNUNZIANA è
Giannotta, 1918.

BRICCICHE LETTERARIE è Rinascente, 1921.

APPUNTI D'ESTETICA E STORIA
DEL PENSIERO ESTETICO, 1924.

SANTO FRANCESCO è Poemetto drammatico, 1926.

NOTIZIE DANTESCHE PER GLI STUDENTI DI LICEO è
Galatola II edizione 1927.

IL SEMINATORE CHE NON MIETE è racconto lirico, 1927.

F. T. MARIETTI E IL FUTURISMO, 1928.

NOZIONI DI LETTERATURA, 1929.

IL CARROCCIO è Dramma, 1931.











Finito di stampare il
30 giugno 1931-IX coi
tipi de “L'italgrafica”
Milano, Via Balestrieri
N.6 - Telefono 92-086



1 Anche Guido Mazzoni nelle note all'Ottocento, parlando dei pedanti, rimanda al libro dello Schilirò: e la grande Enciclopedia Sonzogno (vol. XIV, p. 712) non cita che quello.

2 Giornale dell'Isola letterario, VI, n. 7, 1924.

3 Revue néo-scolastique, pp. 488-9.