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Antonino Schilirò

LA CHIESA MADRE DI MALETTO
Maletto 1937

Nessuno, dopo la costruzione e la benedizione pensò mai di scriver la storia, anche breve, di questo nostro maggior tempio. Forse per modestia, si credette che non valesse la pena di raccontar a’ posteri i sacrifizi e il lavoro, che vi s’erano prodigati.

Mons. Palermo scrisse — è vero — una Memoria, che conservò fra il gran fascio di note di tutte le spese; ma non pensò ad altro.

Tutto — si disse poi — fu conservato nella Casa Palermo; ma per quanto si sia potuto ricercare, non s’è trovato nulla.

Cosicché la nostra bella Chiesa è parsa, fino a un certo periodo, destinata a non poter mai avere una storia e a doversi perdere nel buio de’ secoli.

Sennonché a buon punto il Sac. Biagio Calanna da Bronte, da me pregato, trovò tra le carte del p. Gioacchino Zappia, cugino di Mons. Palermo, la copia autentica di detta Memoria, la quale viene così a soccorrere il vivo desiderio, ch’io sempre ho avuto e non potuto mai soddisfare.

Le note, se si fossero potute rintracciare, avrebbero benissimo illuminato i particolari di quanto sarà detto.

La Memoria, la sola cosa organica che poteva dar un avvio sicuro a un’ampia storia, si limita invece, quasi al puro necessario e — sotto questo punto di vista — può dirsi esauriente.

Io che ho avuto la fortuna di sentir molti, i quali furono non pure testimoni, ma anche chi membro delle varie organizzazioni, chi operaio nella costruzione del tempio, ho trovato che la Memoria collima perfettamente con la tradizione e mi decido a tracciare una breve storia. La quale, mettendo fine al desiderio di tanti anni, varrà — spero — a salvar la nostra Chiesa Madre dal buio della leggenda.

A questo fine, riporterò nel Cap. II, fedelmente la Memoria; nel Cap. III, la verrò integrando di quanto la tradizione m’offre.

Si vedrà così che Mons. Palermo molto saltò a piè pari o solo vi accennò.

Cap. I
Mons. 
Mariano Palermo

La prima figura, che qui ci si presenta, è Lui: l’ideatore e l’anima di quest’opera meravigliosa.

Senza di lui, essa non ci sarebbe, nonostante si credesse necessaria pur allora, che il paese era molto più piccolo di quel ch’è oggi, e la popolazione non arrivava a duemila abitanti.

Della sua vita oggi ben poco sappiamo.

Non se n’interessò nemmeno il clero di Piazza Armerina, dove Mons. Palermo continuò e compì il luminoso apostolato e morì venerato.

Possiamo, quindi, tracciarne solo un breve profilo.

Nacque a Maletto il 17 dicembre 1825 da don Biagio e donna Margherita Mauro: famiglia civile nella borghesia del paese.

Educato prima nel Seminario — oggi Real Collegio — Capizzi di Bronte e poi in quello di Catania, qui fu ordinato sacerdote nel dicembre 1849.

Ritornò al paese natio per esercitarvi ininterrottamente il sacro ministero.

Reggeva allora la Parrocchia — da Cappellano Curato — don Pasquale Sgrò, successo all’Arcip. Onofrio Ponzo, ultimo Parroco di Maletto, morto il 17 gennaio 1847.

Ritiratosi, per ragioni d’età e di salute lo Sgrò, gli successe don Mariano Palermo, nominato Cappellano Curato da Mons. Felice Régano il 19 maggio 1854, come risulta da un accenno dell’atto di transazione per la congrua parrocchiale tra lui e gli eredi del Principe di Maletto nel 1864.

Cappellano Curato si firma fino al 25 febbraio 1881, quando — press’a poco — fu eletto Vescovo di Lipari.

Nel mese di marzo partì.

Il 1887 fu trasferito a Piazza Armerina, dove morì il 13 febbraio 19O3.

Chiamato a reggere questa Parrocchia, allora sotto il titolo di S. Michele Arcangelo, ma in verità — ridotta, dopo la morte del Ponzo, a un semplice “Vicariato”, come dice il timbro fino al 1928, don Mariano Palermo vi portò il contributo d’una fibra fisica robustissima, d’un bell’aspetto, de’ modi signorili della famiglia e della facondia d’una parola affascinante.

Aveva trovato — è vero — un popolo buono e religioso, degno del Ponzo, che lo resse per ben 41 anno; ma egli vi lavorò poi così, che il Card. Dusmet chiamò Maletto: “La Parrocchia modello della mia Archidiocesi”.

Ordinariamente si chiamava: “La badia”.

Maletto in un panorama degli anni '20. Spicca sulle abitazioni la mole della Chiesa Madre

Cap. II
La Memoria

In nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

In Maletto lì 3 giugno milleottocentosettantasette.

Io qui sottoscritto Sac. Mariano Palermo Curato e Vicario Foraneo vedendo oggi coronati di felice successo il desiderio, e gli stenti di parecchi anni, e lustri, ho creduta regolarissima cosa scrivere la presente memoria, ed inserirla qual documento maggiore nei documenti e carte di questo Archivio della Chiesa.

Essa è sommario e compendio ma veritiero, e fedelissimo dei fatti, che han preceduto accompagnato e seguito fin’oggi la Santa costruzione della Chiesa Madre, che oggi è stata solennemente benedetta, titolandola ai SS. Cuori di Gesù, e di Maria.

Confesso anzi tutto, e potrei chiamare in testimonio taluni amici, ai quali io confidava le mie intenzioni, che fin dagli anni giovanili io sentiva in me ardente desiderio e zelo, che una Chiesa più ampia e migliore fosse costruita.

Ciò poi non per vaghezza di novità, e soddisfazione d’indole faccendiera.

Affatto; ma perché le due antiche mi pareano intieramente disadatte per luogo per giacitura, e peggio ancora per incapacità.

Nei primi anni del mio sacerdozio, e più poi quando nell’anno ventottesimo di mia età (1854) fui, mio malgrado, obbligato dal comando del Vescovo Régano di felice memoria ad accettare la cura di questi buoni fedeli, sentiva nell’animo mio oscuro corruccio nel vedere, anche nella Chiesa maggiore di S. Antonio, nei dì festivi e di concorso, l’incomposto affollamento, e quindi il necessario ma irriverente bisbiglio, e le immodestie, e le profanazioni forse peggiori.

Nel 1856 venne qui a predicare la Quaresima un sacerdote di Aci S. Antonio molto zelante e buono di nome Gaetano Digrazia. La di lui predicazione popolare e pia era da questo buon popolo avidamente udita, e quindi al solito il grande concorso rendeva evidentissima la evidente angustia ed incapacità della Chiesa. L’uomo di Dio significò a me i suoi pensamenti, intese i miei, parlammo a molti e trovammo gli animi quasi istintivamente preparati facea sgomento davvero l’arduità della impresa, ma fidenti in Dio deliberammo invitare pubblicamente il popolo ad una soscrizione. Così fu fatto, ed esso popolo accorse volenteroso, e luogo di convegno fu la casa del Sig. D. Antonino Putrino, ed il Notaro Sig. Mariano Petrina scriveva i nomi dei venuti, e la cifra delle offerte promesse.

I sussidi così ottenuti sulla parola dovevano erogarsi in ogni agosto per cinque anni, a cominciare dal prossimo agosto 1856.

Gli oblatori intendevano fare atto di obbligo nelle forme legali, ma poi per vari vizzietti non parve opportuno atto notarile, sembrando sufficiente la sola obbligazione morale.

La cifra ottenuta sempre nelle promesse nella sua totalità per soli quei cinque anni salì ad onze cinquecento pari a L. 6.375.

I sottoscrittori nella grande maggioranza tennero parola, e loro si unirono quelli che non avevano sottoscritto, e non solo pei cinque anni, ma sin’oggi che siamo giunti al 21 mo anno con perseveranza hanno contribuito in opere e sussidi per il Santo Edifizio.

Nell’agosto di quell’anno medesimo 1856 s’invitò e venne l’Architetto di Acireale Sig. Raffaello Patané Contarini, che fece la pianta e il disegno, il quale in seguito fu alquanto modificato, e impicciolito ed ebbe in mercede onze 24.

Sotto la direzione di Lui furono fatte le più accurate osservazioni, e fu conchiuso che senza enormi spese ed inconvenienti notabilissimi nessuna delle due Chiese di S. Michele, e di S. Antonio era capace d’ingrandimento.

È falso che lo ex principe sarebbe stato pronto a cedere, e regalare il così detto fondaco e locanda, ora posseduti dai fratelli Grupposo, per la Chiesa se fosse fabbricata in quella località, chiudendo così nel suo ambito la chiesetta di S. Michele.

È perfetta bugia inventata in quei giorni e ripetuta fin’ora dagli allocchi. Che se anche quella fosse stata verità, il dono non si sarebbe potuto accettare, perché condizione impossibile, essendo necessaria altra somma cospicua, e briglia e ritardo per la compra ed espropriazione forzosa delle rimanenti case giovevoli all’uopo.

È falso eziandio che a capriccio non si abbia voluto l’ingrandimento dell’altra Chiesa di S. Antonio di Padova. Non solo la sua giacitura alla bassa estremità della borgata, ma il largo comunale a tramontana detto camposanto, la stradella a mezzodì, le case a levante, e la roccia a ponente dicono chiaro che quella non era capace d’ingrandimento. Più: Essa per le necessarie opere di costruzione avrebbe dovuto per molti anni contare come non esistente, e per così lungo periodo la parrocchia non poteva privarsene e farne senza.

Tant’è il demonio che ha sempre l’usanza di ficcare un corno o la coda nell’opere di Dio, per questo motivo della diversa località, alienò molti animi, parte raffreddandoli, parte volgendoli a nimistà.

Quello era veramente un pretesto, o se vi piace un titolo colorato, onde coprire la vergognosa passione dell’egoismo e dell’avarizia, che in simili casi ritiene gli abbienti dal dare, e perché certi cotali avrebbero ragione a palesarsi quali sono avidi ed egoisti, si avvalgono di un pretesto, o si scoprono anche con veste di finto zelo, e vi dicono: io voglio la chiesa qui, io la voglio colà, pronti, sempre per zelo, a volerla altrove, se per caso si venisse nella determinazione di fabbricarla dov’essi prima desideravano.

Queste riflessioni venivano come spontanee, a chi caldeggiando l’opera di Dio, conoscevano che il sito dove la Chiesa ora è, era il migliore, anzi l’unico da ciò.

Come Dio volle spuntava limpida e bella l’aurora del diciassette maggio 1857.

Era giorno di domenica, e chi scrive la presente memoria arringò il popolo raccolto nella Chiesa di S. Antonio per assistere la S. Messa, e lo esortò ad accorrere tutti festanti fervorosi, poiché quel dì era fissato al cominciamento dell’ardua e santa impresa, e stessero avvertiti ch’Egli non facea da sé; ma che il Prelato e pastore della Diocesi avea con sua venerata lettera approvata incoraggiata e benedetta la santa opera che si stava per cominciare.

Verso le 7 io era sul luogo, e col cuore fra il timido e il coraggioso mi posi a ginocchio coi pochi allora venuti, e cantai le litanie lauretane, affinché la gran Madre di Dio tesoriera di tutte le grazie avesse dato a me ed al popolo quella virtù, che fosse proporzionata all’impresa relativamente colossale.

Durante il canto vennero molti, e finito, io diedi i primi colpi, ai quali fece eco un po’ di rumore di maschi e mortaretti e anche del suono a festa delle campane. A questo segno che attirò di uomini e donne una vera folla, fu dato il generale assalto alla terra, designata per fondamento al muro di prospetto, degli uomini con pale e zappe scavando, e dalle donne trasportandola nel vicino vallone a mezzodì dell’abitato.

Quel giorno fu veramente giorno di santo tripudio e lavoro, poiché mentre una moltitudine si affaticava nello scavo e trasporto, altre parecchie centinaia portavano pietre, e ne fecero un monte, valutata da circa un centinaio di canne reali.

Quell’entusiasmo proprio superlativo durò solamente quel giorno; ma in seguito particolarmente nei dì festivi il popolo accorse sempre volenteroso, e diede aiuto assai, non solo in quel primo anno, ma eziandio nei seguenti, con particolarità in opere di scavo e di trasporto di materiali.

Il porto della pietra per fabbrica tutta interamente di lava, e della pietra di calce, credo per mettà, fu eseguito gratis, così parimenti esso popolo accorse numeroso nel trasporto dell’arena, e ultimamente nella costruzione delle volte per la schiuma di lava, o come qui chiamano pomice, della quale si consumò quintali 600 circa, la spesa fu troppo lieve perché fu portata tutta gratuitamente e per amor di Dio.

Eziandio è da registrare che il combustibile necessario alle fornaci per la calce fu quasi interamente somministrato da questi fedeli. Ed invero l’offerta ch’essi han fatto in ogni anno, quando nel Sabbato Santo passava il Curato a benedire le loro case, è stata legni per fuoco. Da due a tre mila carichi, in tutto il corso di venti anni, di tali legni vennero da queste divozioni.

Non è vero che il popolo è neghittoso; esso è fervente sempre nelle opere di Dio, quando con perseverante pazienza è ben guidato! Con questi mezzi, ed altre industrie assai, e con travagli e stenti, e sacrifizi inenarrabili, e con soprapensieri, fastidi, ed anche amarezze incredibili, la santa costruzione è venuta sù lentamente, ed oggi dopo appena venti anni e diciassette giorni, dacché fu dato principio a scavare la terra per le fondamenta, per grazia di Dio proprio singolarissima si è giunti al grande atto della sua solenne benedizione.

Del quale atto, preceduto di un giorno dalla consacrazione delle campane, ora è a dire specificatamente.

Era quasi un anno, dacché il sottoscritto osservando, che fatto uno sforzo supremo la Chiesa poteva essere compiuta e dedicarsi al santo culto nel 31 maggio di quest’anno Festa del SS. Sacramento, avea supplicato l’Ill.mo, e Rev.mo Monsignor D. Giuseppe Benedetto Dusmet Arcivescovo della Diocesi a degnarsi di eseguire egli medesimo la solenne cerimonia. Il Prelato aveva benignamente accolto la preghiera; ma per mottivi, che non occorre dire, non poté nella solennità suddetta lasciare la sede. Il giorno appresso però verso le 2 pomeridiane fu qui, accolto da questo buon popolo con affetto, e tripudio singolarissimo.

Alle 7 visitò il Sacro Edificio esternando gradimento e compiacenza pienissima e totale.

Egli il prelodato Ecc.mo Arcivescovo è per tutti i versi benemerentissimo di questa Chiesa, poiché dopo averle donato, due anni orsono, L. 700, nel presente regalò L. 800 per la costruzione dell’altare maggiore, il quale perciò può dirsi costrutto a tutte sue spese, mentre non costò, come appresso in appendice si dirà, che poco più.

Ha meritato anche meglio di essa Chiesa col decreto che in tutte le forme canoniche emanò nel dì 28 del p. p. Maggio, col quale la erige a Chiesa Parrocchiale, traslatandola dalla Chiesetta di S. Michiele, decreto che originalmente si alliga a questa memoria.

La dimane dell’arrivo il prelodato Ecc.mo Arcivescovo con tutta la pompa del Sacro rito consacrò le due campane, titolando la maggiore a Maria SS. di tutte le Grazie, e all’Arcangelo S. Michiele la minore. Fecero da patrini, com’è costume, alla prima il Rev. Sac. Antonino Schilirò, e alla seconda il Sig. D. Pasquale Sgrò, spontaneamente regalando in tale occasione alla Chiesa L. 100 cadauno.

Il Prelato infine tenne nobilissimo discorso, spiegando il rito e parafrasando le orazioni della Sacra Liturgia, dopo il quale le campane furono innalzate al posto conveniente, dove quali trombe di Dio, e voci della religione e della Chiesa a gloria di Lui, e a bene spirituale e materiale del villaggio fanno e faranno udire il loro squillo salutare.

Non è a tacere che in questa occasione fu consacrata eziandio la campanetta della Chiesuola di S. Giuseppe.

Di dette campane, ovvero del curioso ritrovato col quale si potettero prontamente ottenere le L. 900 circa necessarie all’acquisto, dico ora una parola: Il giorno di domenica 13 ottobre dello scorso anno, create tante commissioni di zelatori quante sono le classi o condizioni degli abitanti; avvertito il pubblico dell’incarico dato a dette commissioni, esse furono in giro, ed ottennero in due giorni con lieve esuberanza la somma desiderata. Il mottivo che persuase tutti a dare prontamente fu la condizione fissata e pubblicata, che per chi avrebbe dato solo due lire, la campana in morte loro suonerebbe gratis. Da ciò l’iscrizione latina che si legge in detta campana: Opera sum pauperum, pro eis, dum vivunt, ut bene vivant satagam; Dum moriuntur pacem gemens precuber3. Perché la promessa sia fedelmente mantenuta, si conserva in archivio elenco esatto degli offerenti.

Giunse finalmente questo presente giorno da tempo sospirato, tre giugno 1877 Domenica fra l’ottava del SS. Sacramento, giorno per Maletto memorabile e solennissimo, e fra le cose del paese degno di memoria più unica che singolare, nel quale con pompa che maggiore qui non si poteva fu benedetta la nuova Chiesa Madre dedicandola ai SS. Cuori di Gesù e di Maria.

Il prelodato Ecc.mo Arcivescovo indossò gli abiti pontificali nella casa dello scrivente assistito ai lati dai Revv. Sacerdoti da Bronte D. Domenico Artale e D. Gioacchino Zappia, vestito di cotta il rimanente clero, venti circa fra preti e chierici.

Così processionalmente si venne alla porta maggiore della Chiesa, dove si die’ principio alla Sacra cerimonia che mi astengo a descrivere, bastando solamente il dire che essa seguì imponente, augusta e per ogni verso degna di specialissima menzione. Lodi da un coro di elette voci e suonatori venuti da Adernò, si cantò la santa messa con assistenza pontificale. Tale messa prima e solenne fu celebrata dal Rev.mo Economo Curato di Bronte, D. Antonino Saitta facendo da diacono e suddiacono i Sacc. D. Antonino Schilirò e cerimonieri i Revv. mi venuti coll’Arcivescovo D. Luigi Taddeo e D. Paolo Proto.

Chiuse cotale solennità la processione del SS. portato per le nostre vie dall’Ecc.mo Prelato, il quale oltre l’omelia predicata dopo il Vangelo, anche ritornata in Chiesa la processione, predicò ancora parole di caldissimo affetto ed a corona della sacra funzione impartì al popolo col SS. Sacramento la trina benedizione.

Quantunque le cose qui riferite resteranno lungamente impresse nella mente di questi fedeli, e i padri le racconteranno ai figli loro, e questi alla generazione avvenire, tuttavia lo scrivente per ogni buon fine ha creduto conveniente scriverle di propria mano sommariamente a perpetua memoria, e ad majorem Dei gloriam, a cui ogni onore e lode per tutti i secoli dei secoli, Amen.

Sac. Mariano Palermo Curato e Vicario Foraneo.

APPENDICE4

1)—L’Altare maggiore che fu lavorato in Acireale dal Maestro Giuseppe Leotta Cardillo ed era al suo posto il dì della benedizione della Chiesa, costò in tutto escluso il solo trasporto L. 1. 290, 55.

Cioè per detto altare e ossatura del tabernacolo e sua addoratura in legno L. 995, 25.

Per drappo e ricamo in oro sopra detto drappo dentro il tabernacolo L. 93, 50.

Per rete e ricamo in essa nella porta interna del tabernacolo L. 56, 39.

Per lastra in... rosso e con sua addorature e argentatura nella porta esterna L. 110, 00.

Il rimanente per spese occasionali erogate al maestro L. 80, 45.

Soccorsero la superiore spesa l’Ecc.mo Arcivescovo Dusmet in L. 800 e la Sig.ra Donna Francesca Putrino per tabernacolo in L. 382, 50.

2)—Per detto altare fu lavorata in Catania una bella tovaglia ricamata in oro soprarete di filo a tutte spese della Sig.ra Donna Stella Vagliasindi, costò L. 178, 50.

3)—L’altare che adesso è primo a destra di chi entra dalla porta maggiore, il dì della benedizione era collocato al posto dell’altare della Madonna. Esso e questo del SS. Cuore di Maria che è stato piantato in Settembre corrente 1878 furono lavorati dal marmoraio catanese Sig. Giuseppe Biondi pel prezzo entrambi di L. 1. 000 e per approvazione arcivescovile a carico dell’entrate delle Chiese; colla spesa per calce, gesso, murifabbro etc. escluso il trasporto, costano in tutto compreso il vitto pel marmoraio L. 1. 140.

4)—L’altare che è primo a sinistra di chi entra dalla porta maggiore da dedicare a S. Francesco Saverio fu lavorato dal Sig. Biondi pel prezzo di L. 500 e collocato nell’ottobre 1877 costa in tutto L. 570.

N. B. Esso è stato eretto a spese di una rendita legata a quest’uso dal fu R. Vic. Foraneo Don Francesco Battaglia, come può leggersi nel suo testamento agli atti del Sig. Notaio Antonino Putrino dell’agosto 1865. Detta rendita o la parte di essa che si riporta nei conti sino a tutto quest’anno 1878 ha prodotta l’intera somma di L.... (non vi è indicata alcuna cifra. N. D. R. ).

5)—L’altare con urna grande dedicato al SS. Cuore di Gesù ed eretto nello agosto 1877, fu lavorato dal marmoraio catanese Serafino Marino pel prezzo di L. 637, 50. Vitto al medesimo nella sua dimora in Maletto L. 25, costò dunque, escluse le spese di porto e di erezione L. 667, 50.

Sopra detto altare è il grande crocifisso lavorato in Acireale da Francesco Foti pel prezzo inclusa la croce di L. 350.

N. B. questa somma nel suo totale di L. 1. 012. 50 fu erogata, sopra i risparmi di parecchi anni, dalla cassa detta del SS. Cuore di Gesù, cioè dalla tassa di centesimi 60 che paga ogni anni ciascun socio dell’apostolato della preghiera.

6)—Le fonti per acquasanta della porta maggiore furono lavorate in Catania dal marmoraio Don Carlo Calì al prezzo totale di L. 102.

N. B. Son dono, una del Sig. Giuseppe Schilirò di Giuseppe e l’altra del Sig. Antonino Calì di Antonino.

Le altre due fonti delle porte minori lavorate dai fratelli Serafino e Isidoro Marino da Catania costarono tutte e due L. 68 e sono dono una dei frat. M. Francesco Vinci e Carmelo Luca di M. Michiele, e l’altra in mettà di M. Vincenzo Cordaro.

7)—Le altre tovaglie per l’altare maggiore e quello di S. Giuseppe sono fin oggi a carico e cura delle sorelle Sig. ne Giuseppa e Concetta Sciavarrello, e degli altri altari del SS. Cuore di Gesù e del SS. Cuore di Maria e di S. Francesco Saverio a carico e cura delle Sig. ne Nunzia Portale e Nunzia Tirendi di Francesco.


Cap. III
Nota

Nota La Memoria ne parla con termini uguali a un delicato mover d’ali; in verità, che ebbe l’idea della necessaria chiesa, chi la suggerì e incoraggiò fu proprio don Gaetano Digrazia, il quale era venuto due volte a predicar la quaresima — una volta sotto il Parr. Ponzo — ed era, quindi, persuaso di quella necessità.

L’idea era certamente bella e s’imponeva.

Ma, nonostante l’unanimità di quanti risposero al primo appello, non vi corrispondeva l’agiatezza del paese, ristretto in poco e povero territorio.

Quel che però parve arduo agli altri, non parve al Palermo.

La sua mente, che irradiava le altre, aveva luce anche per questo; e il suo cuore, che era ormai un cuore paterno, aveva forza d’affrontarne i relativi sacrifizii.

Fu così ch’egli lanciò quell’appello.

Il paese, in genere, era povero.

Ma c’erano parecchie famiglie borghesi, le quali, oltre a’ propri terreni e a vistosi armenti, gestivano estesi feudi della Ducea di Bronte.

Intorno a esse era stretto il popolo che lavorava ad anno o a giornata; ed esse bastavano evidentemente a sostener un impegno così delicato, e lo sostennero.

All’epoca della messe, oltre al personale lauto contributo, raccoglievano da’ loro inquilini un tòmolo di frumento per ogni salma del raccolto.

A questo modo, era una somma considerevole e sicura, che giungeva ogni anno nelle mani del Palermo.

Il quale s’era riservato solo il compito di girare per il paese, finita la trebbiatura, e raccoglier le partite di quelli che coltivavano i campi nel territorio.

Qui soprattutto duole lo smarrimento del fascio di note, dove ogni famiglia aveva la pagina dedicata alle sue amorevoli offerte.

Vi si sarebbe anche visto quanto egli stesso, il Palermo, profuse del suo, che non contò mai e di cui, con evidente grandissima modestia, non fa mai cenno nella Memoria.

Comunque, del risultato del primo impegno egli rimase soddisfatto.

Non si dice quale fosse quello degli altri anni; ma possiamo immaginarlo, se l’opera continuò come vedremo.

Avviata e assicurata così la parte finanziaria, si decise l’esecuzione del progetto.

Qui la prima difficoltà fu la scelta del luogo.

Il paese desiderava che la Chiesa sorgesse nel centro.

Non vale qui più la pena d’insistervi, quando la Memoria adduce quelle ragioni per scusarsene.

Credo però plausibile che il p. Digrazia insistesse a consigliar che la Chiesa sorgesse dov’è ora, e il Palermo vi si decidesse, anche in merito a qualche motivo mistico, che poi diede luogo al titolo de’ Ss. Cuori di Gesù e Maria.

Il tempio veniva così a sorgere a cavaliere del paese, quasi a dominarlo e proteggerlo: augurio, che calmò le opposizioni.

Alla pagina eloquente della Memoria, che narra i sacrifizii e l’entusiasmo del Palermo e del popolo, bisogna aggiungere qualcosa.

Quando s’incominciò a scavare, il principio si presentò subito scoraggiante.

Il terreno si mostrò man mano profondamente argilloso e soggetto a frana.

Ma il dado era tratto, e bisognò proseguire.

Fu una voragine immensa, che, scavando, s’aprì.

S’arrivò a tanto che si scendeva giù con altissime scale e servendosi di tramezzo de’ robusti puntelli.

Le fondamenta son quasi della stessa altezza che misura la facciata del tempio.

Questa testimonianza, oltre che concorde, è logica, se consideriamo il terreno franoso e l’edifizio, che vi poggia e non soffrì la minima incrinatura dall’immane terremoto del 28 dicembre 1908.

Quella voragine intanto inghiottì un immenso materiale di pietra e di calce: opera direi sovrumana, che se sfugge all’occhio ignaro del semplice fedele che entra in chiesa, non sfugge alla storia.

Cade qui in taglio di ricordar una nobile istituzione, che sorse per alimentare l’entusiasmo e il lavoro del popolo: le tre Confraternite.

Conservo — prezioso cimelio — una minuta d’articolo che lo zio don Antonino Schilirò mandava il 21 agosto 1898 al Can. Salvatore Romeo, allora direttore del settimanale “La Luce”, oggi Priore della Cattedrale di Catania.

In quell’articolo informativo della situazione religiosa e morale di Maletto, lo zio, fra l’altro diceva: “In Maletto vi sono alquante Associazioni puramente religiose che vivono e vivacchiano da più tempo.

Tre di Esse intanto, anche dal lato sociale, meritano qualche riguardo, e furono fondate nel giugno 1866, cioè al di là di anni 30.

Esse ebbero il nome di Confraternite; ma, con nome moderno, potrebbero in bel modo chiamarsi Comitato Parrocchiale; perché tutt’e tre formano una famiglia con tre nomi; e la loro costituzione, quantunque ideata da Noi, corrisponde a capello con quella de’ nostri tempi messa in voga, quindi sarebbe il primo Comitato P. le d’Italia.

Nel primo decennio, diedero frutti mirabili di spirito e sociali; e a questi deve ascriversi l’istituzione estinzione? --> de’ partiti, la bella armonia di tutto un popolo, e il compimento della nuova presente Madrice: unica opera di attenzione, in questo secolo, nel paese di Maletto”.

Non so se l’articolo fosse allora pubblicato nel “La Luce”.

Comunque, il prezioso autografo ci accerta di cose e date importantissime e, soprattutto, che le Confraternite determinarono la resistenza del popolo nel compimento della Chiesa Madre. In tutto, dieci anni di cooperazione.

Lo confermano i non pochi confratelli superstiti.

Appresso, nel 1905, sorse un grave dissidio tra le Confraternite e il Vic. Portale; ed esse, se non furono sciolte, com’egli desiderava, vissero però grame fin quasi all’angoscia.

Ma resistettero, con singolare tenacia, nonostante una continua decimazione.

Nell’ottobre 1928, una delle cure più urgenti, che s’imposero al mio ufficio di Parroco, fu di ricostituirle.

Sostituii un nuovo Regolamento al vecchio già dispersosi; ottenni il decreto d’erezione canonica e, quando — nel 1934 — le consegnai al novello Sac. Giuseppe Tirendi, esse erano ben ordinate e animate di quello spirito, che nel 1866 le aveva fatte sorgere.

Lo zio, che allora era ancora diacono, fu, con la costituzione delle Confraternite, il braccio destro del Curato Palermo; massime poi che — nel 1869 — fu sacerdote: quelle due anime vissero di quell’intimità, che resta modello d’amicizia piena d’abnegazione e feconda di santo bene in mezzo a un popolo, che naturalmente ne prospera.

Quando la Chiesa fu completa nella tre navate principali, tutti sentirono il bisogno di sostar un po’.

Più che stanchi, erano ansiosi d’aver una Chiesa rispondente all’esigenza; e quel Santo edifizio bastava, per il momento, ad accontentarli.

Rimandarono a miglior tempo il resto.

Siamo qui tra il ‘76 e il ‘77; poiché s’asserisce che fu impiegato più d’un anno per l’intonaco, gli stucchi, i fregi e quanto, insomma, valse a render atto al culto la Chiesa.

L’entusiasmo del popolo allora si fece generale e pieno; se qualche diffidenza c’era stata, cadeva dinanzi alla realtà completa.

Fu una gara, cui presero parte anche le più umili donne: chi offriva la chiave d’argento del tabernacolo, chi cooperava alla compra de’ candelieri d’un altare, chi d’un altro; una lavorava fiori, un’altra offriva biancheria; le diverse associazioni, oltre a far costruire un altare, di cui parla la Memoria, fornirono quello e gli altri altari di ricche tovaglie.

Ognuno così poté dire d’averci posti mano e di restar pago.

La soddisfazione, per altro, fu tanto più grande, in quanto il popolo poté vantarsi d’aver osato quell’opera sublime quasi senza aiuto altrui.

Quasi: la Memoria parla solo del venerato Card. Giuseppe Dusmet; ma a onor del vero, bisogna far il nome di due pie brontesi: la sig.ra Teresa Viola, che offrì L. 5. 100, e la sig.na Caterina Verso, che offrì L. 2. 000.

Si giunse così alla solenne benedizione.

Libero ormai dal pensiero della costruzione, il Palermo attese solo a lavorar tra il popolo, che lo venerava, e vi passò altri quattro anni.

Nel febbraio (?) 1881, venne eletto Vescovo di Lipari.

Quest’elezione fu un vero lutto per il paese, che così perdeva il Padre.

Il 25 di quel mese firma, per l’ultima volta, da Cappellano Curato un atto di battesimo; per alcuni giorni segue a lui, in qualità di Pro Vicario, don Giuseppe Maria Schilirò.

Il 20 marzo vien eletto successore del Palermo mio zio don Antonino Schilirò, che il 21 si firma “Vicarius Foraneus et Vice Parochus”.

Un passo avanti nella storia della Parrocchia.

Vescovo di Lipari, trasferito poi nel 1887 a Piazza Armerina, rimase ugualmente vivo in mezzo al popolo del suo Maletto, ch’egli veniva a visitar periodicamente ogni due anni.

L’ultima sua visita fu nell’estate del 1902: villeggiatura assai tormentata da que’ dolori, che a breve distanza lo portarono alla tomba.

Presago allora, volle far dono alla sua Chiesa della campana più grande, consacrata poi — nel settembre — di quello stesso anno — da Sua Emin. il Card. Giuseppe Francica Nava, durante la s. visita.

Come ho accennato nel Cap. I, di quest’uomo, che ebbe tutta la grandezza d’un apostolo, nessuno lasciò — purtroppo — una qualsiasi biografia, che nemmeno a noi riesce oggi di poter compilare e che fosse degna di lui.

Io ricordo con piacere che trovandomi nel 1924 a Catania, volli spontaneamente andar a Piazza Armerina per assistere alla traslazione della salma di Mons. Palermo da una chiesetta suburbana, dov’era stata provvisoriamente deposta, alla Cattedrale, dove s’era deciso d’erigergli un bel monumento.

La traslazione avvenne nel pomeriggio del 20 luglio.

Ferveva in quei pressi la trebbiatura, si temeva, quindi, che gran parte del popolo sarebbe stata assente.

Quel giorno, invece, il popolo di Piazza Armerina volle testimoniare al venerato Pastore la sua immutata devozione.

Ed era bello veder le vie affollate di gente, che s’inginocchiava al passar della bara, piangendo e benedicendo.

L’indomani; S. E. Mons. Mario Sturzo celebrò un solenne pontificale e dopo disse un bel discorso d’occasione.

Ma la tumulazione solenne e il bel monumento ideato non sono ancor venuti; la salma giace ancora deposta in una cameretta attigua alla sacrestia! Perché? Andrà forse a finir nel comune ossario? Quando nel 1928 io presi possesso della Parrocchia, una delle mie prime cure fu che s’erigesse alla memoria di quel Padre indimenticabile un monumentino.

Il paese, nonostante la crisi economica incominciasse ad angustiarlo, rispose all’appello, e così l’11 ottobre poté inaugurarsi un bel medaglione su marmo, con quest’epigrafe da me dettata:


A S. E.

Monsignor Mariano Palermo

nato il 1825 morto il 1903

che vigile pastore educò a Cristo

la sua natia cittadina

e le costruì questo tempio

faro di luce e di salvezza

Popolo Comune Associazioni

grati e riconoscenti

questo ricordo

posero


Cap. IV
Il Vicario Antonino Schilirò. – Il Campanile

Lo zio Sac. Antonino Schilirò successe, dunque, al Curato Palermo.

Ne raccolse incorrotta l’eredità spirituale della parrocchia, quantunque le condizioni finanziarie del paese, per il continuo aumento della popolazione e per la scomparsa di alcuni borghesi, che s’erano distinti durante la costruzione della Chiesa, dessero proprio luogo al lamento: “quantum mutatus ab illo!”.

La sua elezione fu desiderata e sollecitata dallo stesso Mons. Palermo, che, allontanandosi, desiderava lasciar al popolo, che restava sempre suo un altro sé stesso.

Il paese, così, sentì meno il dolore di quella partenza.

E il Vic. Schilirò, che come su ho detto, era stato il braccio destro di lui, ne fu degno continuatore; cosicché la sua figura, che vive ancora nell’anima del popolo, si leva serena e bella accanto alla prima.

Nacque la sera del 12 (allo Stato Civile il 13) maggio 1841 da Giuseppe e da Rosalia Tirendi.

A 8 anni entrò nel Seminario di Bronte, dove fece regolarmente gli studi classici, che allora fiorivano e di cui diede prove mirabili, come attestano alcuni carmi latini, che conservo.

Nel 1860 doveva passar al Seminario di Monreale per studiarvi la teologia e perfezionarsi nella lingua latina; ma la rivoluzione lo costrinse, invece a ritirarsi a casa, dove seguitò a studiare e un po’ a insegnare a’ giovani, che per mancanza di scuole superiori alla terza elementare o di mezzi, non avevano come continuare.

La Sede Arcivescovile, con la morte di Mons. Régano, rimase vacante.

Gli toccò, quindi, andar ora in questa ora in quelle diocesi per ricevere i s. Ordini.

Il 1867 fu consacrato Arcivescovo di Catania Mons. Giuseppe Benedetto Dusmet, il quale poi l’ordinò sacerdote il 13 marzo 1869.

Il ’66 — s’è visto — aveva fondato, da diacono, le tre Confraternite.

Ordinato sacerdote, da un canto fu di maggior aiuto al Curato Palermo, dall’altro continuò la vita di studio e di scuola: scuola, che faceva gratis, poiché l’agiatezza della famiglia gli permetteva di far questo bene in mezzo alla gioventù.

L’81 fu eletto Vicario Foraneo e Vice Parroco.

La nuova carica lo tolse alla vita di studio e di scuola e lo decise a quell’apostolato, che di lui fece “omnibus omnia”.

In questo si compendia tutta la sua attività, lo spirito di sacrificio e la modestia, che gli precluse le porte a possibili onori.

In l’“homo Dei”, irreprensibile, amabile, severo; pronto a tutte le necessità, specie de’ poveri, cui aveva destinato inderogabilmente l’elemosina della messa e parte del suo patrimonio.

Esile di persona e di voce, incatenava però l’uditorio con la facondia e la dottrina; e a lui non pur il popolo, ma anche le autorità civili e di pubblica sicurezza s’inchinavano, in un tempo — per giunta — che imperversava la dominazione massonica.

Quale devozione avesse per lui il popolo, lo dimostrarono le feste, che gli fece per il XXV° del Sacerdozio nel marzo 1894.

Lo zio era in stretto lutto per la recente morte del fratello, mio padre; non voleva, quindi, si facesse festa alcuna.

Ma dovette poi piegarsi all’insistenza e permise che si facesse una modesta festicciola in chiesa.

Alla chetichella però, si fece sì che la festa assunse uno sviluppo tale da dar luogo a tre pieni giorni di entusiasmo e di manifestazioni d’ogni genere, che lasciarono un ricordo indimenticabile.

Nelle mutate condizioni, il Vic. Schilirò non avrebbe potuto più vagheggiare l’idea di continuare a compire la Chiesa.

Una cosa però necessaria restava a farsi: il campanile.

Ché le campane erano provvisoriamente situate in un punto abbastanza basso, donde non rendevano un suono sufficiente a tutto il paese.

Ma anche per questo come fare? Egli non credette opportuno domandargli altri sacrifizii.

Sarebbe stato un appello inutile.

Ottenne da’ Superiori il permesso di far costruire il campanile a spese sue e poi risarcirsene a poco a poco di sulle rendite della Chiesa.

A questo modo, il campanile fu costruito il 1883.

Vi spese cinquemila lire: somma vistosissima a que’ tempi; e più vi avrebbe speso, se, per uno sbaglio di calcolo dell’ingegnere, non si fosse dovuto fermar al secondo piano, visto che la colonna tra il primo arco e il secondo non sosteneva il peso enorme d’un muro sempre ugualmente spesso.

Si dove’, per forza, fermar a quel punto e contentarsi del campanile quale l’abbiamo oggi: bello tuttavia e rispondente allo scopo.

Ed egli lo guardava sempre con quell’umile compiacenza, con cui soleva guardar alle cose belle, e spesso — d’estate — andava a goder qualche oretta di fresco sulla terrazzina a primo piano, che guarda disteso a’ suoi piedi tutto il paese.

Questo compiacimento non gli fece curar affatto il denaro speso e che non volle mai rifarsi; poiché le rendite della Chiesa — e lo dimostrano tutti i bilanci consuntivi di que’ tempi — erano assai esigue.

L’agiatezza, per altro, della sua famiglia glielo consentiva, anzi, come abbiamo detto, gli diede sempre di poter esercitare un continuo ministero di carità.

Fu questo sentimento che gl’impose i più rigidi sacrifizii; e a chi lo spronava ad uscir un po’ a prendersi qualche vacanza e andar a veder il Papa... Roma..., rispondeva sereno: “Per ora ci sono i poveri; Roma e il Papa, se non ci sarà il verso di vederli qui, li vedremo di lassù”.

Così avvenne.

Nel fiore degli anni, al Signore piacque di toglierlo al diletto popolo: una violenta bronco-polmonite lo strappò alle cure e all’affetto indescrivibili della famiglia e del paese, dopo cinque giorni di malattia, la sera del 1 giugno 1899, solennità del Corpus Domini.

Aveva 58 anni.

Il bene compiuto e il rimpianto tuttora vivo nel paese fanno l’elogio più bello a queste due anime, cui noi non abbiamo avuto il verso d’erigere un degno monumento, ma a cui può degnamente riferirsi il bel verso del Platen: Im Tode hat nun jeder seine Krone3.

Cap. V
Il Vicario Antonino Portale. –
La Cappella del Ss. Sacramento

Successe il Vic. Antonino Portale.

Il quale nacque il 20 novembre 1851 da Francesco Santo e da Giuseppa Spatafora.

Di costumi intemerati, visse una vita rigidamente appartata e morì il 18 gennaio 1923.

Desideroso di far anch’egli qualcosa, non poté mutare le persistenti circostanze finanziarie.

Pensare, quindi, di poter continuare e compir la Chiesa secondo il progetto iniziale, era un evidente illudersi; e perciò, volendo pur fare qualcosa, si contentò di ridurre il disegno, di rinunziare alla croce latina e alla relativa cupola e di costruir l’abside e le due cappelle laterali attaccate immediatamente alle tre navate.

E, per incominciare, costruì la cappella del Ss. Sacramento attigua al campanile e che fu inaugurata il 26 dicembre 1909.

Vi si spesero circa diciottomila lire raccolte in diverse questue nel paese e da doni d’alcuni concittadini residenti in America.

Ma fu un vero sforzo, tanto ch’egli non pensò più affatto alla costruzione del resto che aveva progettato.

Fu un bene? La cappella del Ss. Sacramento, oltre che costruita con criterio architettonico ben diverso e ìmpari a quello del disegno originale, si presenta anche troppo muto all’occhio del visitatore.

E, poi che c’era l’idea — oggi l’idea è un vero bisogno — d’ingrandir la Chiesa a misura della popolazione aumentata, il guadagno che se n’avrebbe a quel modo sarebbe minimo.

Bisogna, dunque, ritornar al progetto iniziale per dar alla Chiesa la magnificenza dell’opera completa e l’agio di contener i suoi figli.

Guardata così, la Cappella s’ha da considerar una cosa meschina e precaria.

Con la morte del Vic. Portale, non abbiamo una successione; poiché il Card. Nava, volendo che s’ultimassero le pratiche necessarie per l’erezione delle Parrocchie, lasciò qual Delegato Parrocchiale il Sac. Vincenzo Parrinello.

Il quale capitò — è vero — in quell’aureo periodo dell’immediato dopo-guerra, ma si limitò ad aprir le porte laterali alla centrale, le quali s’eran tenute sempre murate perché ancor non necessarie alla Chiesa incompleta, e a riparar il pavimento dell’atrio esterno.

Eletto, nel 1928, il Parroco, il Sac. Parrinello cessò dalla sua carica provvisoria.


Cap. VI
Il Parroco

Dopo la morte del Parroco Ponzo, la Parrocchia passò — come s’è visto — a un semplice Vicariato Foraneo fino al febbraio 1928.

Diversi tentativi d’erigere le Parrocchie nella Diocesi restarono un puro desiderio.

Con l’avvento del Fascismo, fu agevolata la funzione de’ Parroci; e ciò persuase il Card. Giuseppe Francica Nava a erigere le Parrocchie ed eleggere i Parroci.

Venne, così, il decreto di concorso agli esami, secondo i s. Canoni; e gli esami ebbero luogo il 15 e 16 febbraio 1928.

La scelta cadde su di me, che, nonostante la mia riluttanza, a causa — soprattutto — della salute, dovetti accettare e fui eletto con Bolla del Card. Nava il 29 dello stesso mese.

Il 24 maggio la Bolla ottenne il Regio Placet del Procuratore Generale presso il Tribunale di Catania, e il 24 giugno venni da Catania a prendere solennemente il possesso della Parrocchia.

La nuova Chiesa così venne a essere formalmente la “Parrocchia de’ Ss. Cuori di Gesù e Maria”.

Dopo dunque, 81 anno, io ho avuto la sorte e, insieme, la responsabilità d’essere il Parroco di questo popolo, che fu la cura, il gaudio e la corona di Mons. Palermo e del Vic. Schilirò.

Immagini ognuno il desiderio di compir l’opera sospesa.

Ma, purtroppo, la crisi, che incominciò il 1929 e tuttora travaglia non pur l’Italia, ma il mondo intero, che si dibatte fino alla minaccia d’estreme conseguenze, fa maggiormente soffrire i nostri piccoli centri, colpiti — per giunta — da cattivi raccolti, e lascia perciò, un gran vuoto nell’animo mio! Quanto non s’è sofferto in mezzo al popolo, minacciato alle volte dallo spettro della fame! Dolorando, son vissuto in mezzo a esso, nel lavoro del s. Ministero.

Ho curato, con amore lo sviluppo della vita interiore, la vita liturgica, la ricostituzione delle Confraternite, la costituzione dell’Azione Cattolica, e a ciò non ho risparmiato sacrifizii, specie in mezzo alle dure vicende della salute e dell’immancabili contradizioni.

Nel 1931, quando fu portata nel paese la luce elettrica, io n’arricchii subito la Chiesa, con lampade di complessive cinquemila candele: la luce, quest’arcano dono di Dio che dà la vita e il gaudio, ha ormai completato la solennità della sacra liturgia nelle funzioni festive.

La bella Chiesa era degna di questo pieno fulgore.

23. 7. 37.

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CURIA ARCIVESCOVILE -

CATANIA Nihil obstat Can. Joseph Scalia censor

Catania 24 Mai 1938

Imprimatur Vic. Gen. (illegibile)

3 Sono opera dei poveri, per essi, mentre vivono, affinché vivano bene; quando moriranno gemendo augurerò pace.

4 Aggiunta nel 1878.

3 Nella morte ha or ognun la sua corona